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SPECIALE PESACH 5784

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    A New York gli oggetti personali raccontano le vite spezzate dalla Shoah

    Il diario di un bambino, la bambola preferita di un’altra bimba, un libro di cucina che custodisce ricette di famiglia, una pagella, un rotolo della Torah contrabbandato negli Stati Uniti e un cucchiaio d’argento trovato tra le macerie di un campo di concentramento. Sono gli oggetti esposti alla mostra “The Holocaust: What Hate Can Do”, una nuova esposizione permanente al Museum of Jewish Heritage a Lower Manhattan. La mostra enfatizza le storie umane individuali, raccontandole attraverso la potenza degli oggetti.  L’esposizione a due piani tenta di gettare nuova luce sull’educazione alla Shoah creando una narrativa avvincente di quelle che furono le persecuzioni contro gli ebrei negli anni della guerra, dell’antisemitismo, della resistenza ebraica e della perseveranza.  È una mostra capace di parlare intrecciando le storie individuali di 750 oggetti e manufatti, oltre alle testimonianze in prima persona, le fotografie e i testi. Sono racconti di vite ebraiche che diventano reali grazie agli oggetti fisici, capaci di fermare il momento prima che la Shoah spezzasse ogni speranza. 

     

    Per Judy Baumel-Schwartz, curatrice della mostra e studiosa della Shoah presso la Bar-Ilan University, lavorare alla mostra “è stato uno dei momenti più alti della mia carriera professionale. Come storica specializzata nella Shoah, ho sempre insegnato ai miei studenti, attraverso storie e documenti, cosa è successo e perché è successo”, ha detto in un comunicato stampa.  “Qui, per la prima volta, posso mostrare alle persone come è successo e a chi è successo, attraverso centinaia di oggetti”. Sono oggetti che emozionano e che raccontano una storia senza parole. E non serve nulla di complicato, basta, ad esempio, una ciotola bianca smaltata appartenuta alla famiglia Burbea, che fu spedita nel campo di concentramento di Giado assieme ad altri ebrei libici.  Furono autorizzati a portare con loro solo pochi oggetti quando furono poi deportati nel campo di Civitella del Tronto in Italia e, da lì, inviati a Bergen-Belsen in Germania.  La ciotola rimase con loro: quando il loro figlio più giovane nacque a Bergen-Belsen nel 1944, la famiglia la usò per portare il ragazzo al mohel per la circoncisione.

     

    L’obiettivo di mostrare questi oggetti è quello di animare e intensificare la narrazione della Shoah con storie in prima persona, ha spiegato Michael Berenbaum, studioso della Shoah e consulente della mostra.  “Crediamo in un museo narrativo”, ha detto, osservando come il nome completo della mostra descriva perfettamente la missione del museo ovvero: “Museum of Jewish Heritage – A Living Memorial to the Holocaust”.

     

    Per sviluppare una narrazione completa di quelli che furono gli anni terribili della Shoah, la mostra dipinge innanzitutto un quadro delle fiorenti comunità ebraiche europee prima dell’ascesa al potere nazista  “Comunità vibranti, vive e vitali, che non hanno idea che il loro tempo sia in realtà limitato. Comunità ignare di essere sull’orlo della distruzione”, ha detto Berenbaum.

    In una sezione, la mostra ospita una narrazione di quanto avvenne nell’aprile 1943, mettendo in luce diversi archi narrativi. Nello stesso mese, infatti, gli ebrei nel ghetto di Varsavia resistettero ai loro oppressori, mentre Hitler e i suoi collaboratori nazisti erano impegnati ad attuare la loro “Soluzione Finale” costruendo forni crematori ad Auschwitz. Al contempo, le autorità americane e britanniche rimasero a guardare con parole vuote e azioni incerte alla Conferenza delle Bermuda.

     

    Una mostra dal duplice impegno didattico: da una parte lavora duramente per definire l’identità del popolo ebraico, mettendo in luce quante comunità siano andate perse in tutto il mondo sulla scia della Shoah: dall’Iran e dalla Libia alla Grecia e all’Europa orientale. Dall’altra, una sezione collega l’antisemitismo nazista con le campagne antisemite nel corso della storia, comprese le Crociate, l’Inquisizione e i pogrom russi.  C’è tuttavia un’ulteriore sezione, in cui si da rilievo alla propaganda nazista e alle purtroppo note caricature antisemite per mostrare la qualità ossessiva e insidiosa dell’antisemitismo nazista.

     

    Il titolo della mostra, “What Hate Can Do”, invita lo spettatore a considerare le manifestazioni di odio nel mondo di oggi e quanto questo sentimento, possa essere devastate portando con sé effetti e conseguenze terribili e incancellabili.  “Il ricordo del passato ha lo scopo di trasformare il futuro”, ha detto Berenbaum.  “Tragicamente, viviamo in un mondo in cui questo ha assunto una maggiore urgenza “ha concluso Berenbaum.

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