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    Che cosa significa la conquista talebana di Kabul per il mondo, per gli ebrei ed Israele

    La “caduta” di Kabul ha colpito l’immaginario dei media e dei politici anche in Europa ed è stata deplorata pure da chi si era opposto alla spedizione in Afghanistan pretendendo che fosse l’ennesimo crimine dell’ ”imperialismo americano”. Molti hanno paragonato l’evento alla sconfitta americana in Vietnam nel 1975 e alla presa di Saigon da parte dei vietcong. In effetti gli elementi simili sono parecchi: la fine di un lungo conflitto; la resa subitanea dell’esercito locale alleato agli Usa, benché potentemente armato, preparato e finanziato dagli americani; la fuga di chi si era compromesso con i valori occidentali; il traffico degli elicotteri fra ambasciata americana ed aeroporto; le grandi conseguenze generali di un evento che dal punto di vista puramente militare non è poi così rilevante. Soprattutto comune è il senso geopolitico: l’impossibilità per la superpotenza americana, nonostante i suoi mezzi immensi e le sue giuste ragioni (la difesa della libertà degli individui, innanzitutto) di prevalere su forze oppressive ma determinate, sostenute dalla solidarietà di regimi simili e ben decise a pagare i prezzi di una guerra asimmetrica di lunga durata.

     

    La sconfitta americana in Vietnam, che si era già delineata nel ‘68 con l’”offensiva del Tet”, illuse molti sulla “maturità del comunismo” (così la chiamava “Il manifesto”) e fu alla base della ribellione giovanile del Sessantotto e poi del terrorismo che ne derivò. Oggi potrebbe esserci un effetto analogo, rilanciando le illusioni islamiste dopo le miserie e le sconfitte successive alla cosiddetta “primavera Islamica”. Ma, tre o quattro anni dopo la conquista di Saigon, in Cina si chiudeva definitivamente l’epoca del maoismo e Deng Xiaoping sceglieva la strada del capitalismo autoritario che ancora oggi la Cina segue, imitato in questo dallo stesso Vietnam. Altri dieci anni e sarebbe caduto il Muro di Berlino e sarebbe crollata l’Unione Sovietica. Il comunismo era sepolto per sempre, anche se oggi alcuni illusi lo rimpiangono perfino negli Usa. Questo non deve far pensare a un automatismo storico che produca esiti analoghi per l’Iran e il Pakistan, ma solo che è più facile far ritirare militarmente un gigante dal suo impegno lontano da casa che governare secondo i principi invocati in guerra.

     

    Certamente però il rilancio dell’islamismo militare e del fanatismo religioso armato, conseguente alla sua vittoria in Afghanistan, deve preoccupare Israele (ma anche l’Europa, che ha subito molti attacchi terroristi da reduci dalla guerra afgana, come Mohamed Merah, l’assassino dei bambini di Tolosa). Chi magari in Hamas, Hezbollah, nel regime iraniano, dopo tanti fallimenti iniziava a dubitare dei progetti di conquista e del metodo terrorista, oggi è certamente ringalluzzito. In particolare l’Iran, che si trovava preso in mezzo fra la presenza americana a est in Afghanistan e a sudovest negli Stati del Golfo, da oggi potrà contare su una situazione strategica molto migliore. Non conta che  i talebani si contrappongano violentemente all’Islam sciita, tanto da considerare non musulmani  gli sciiti afghani di etnia hazara (che costituiscono circa il 10% della popolazione). Essi certamente daranno fastidio agli ayatollah sui confini, ma non sono una minaccia strategica. Dunque è probabile che l’aggressività dell’Iran nei confronti del Medio Oriente potrà aumentare.

     

     

     

    Ma c’è un’altra lezione che Israele innanzitutto, ma anche l’Europa, dovrebbe trarre da questa ritirata precipitosa. L’America è intervenuta tante volte a difesa della libertà dei popoli. La sconfitta degli Imperi Centrali nella Prima Guerra Mondiale e dei nazifascisti nella Seconda è innanzitutto merito loro; quando si festeggia la liberazione il 25 aprile non dovrebbe mai mancare un omaggio ai 32 mila ragazzi americani che caddero in Italia fra il ‘43 e il ‘45.  Le guerre del Vietnam e dell’Afghanistan vanno inserite in questa linea di impegno generoso per la libertà. Ma è anche accaduto che gli Usa abbiano rinunciato a difendere degli alleati, magari popoli che si ribellavano all’oppressione, come gli ungheresi del ‘56 e i curdi nelle guerre del Golfo. Il fatto che la responsabilità della caduta di Kabul ricada oggi sull’amministrazione Biden, che sta anche cercando, senza successo, di trovare un accordo con l’imperialismo iraniano, non deve farci dimenticare che anche le amministrazioni precedenti avevano iniziato un disimpegno dall’Afghanistan, magari in maniera meno precipitosa e più accorta. La lezione è dunque che nessuno stato può dare per scontato che la sua libertà sarà difesa dagli Usa: né chi è esposto chiaramente in prima linea all’attacco islamista come Israele, né chi è apparentemente più al riparo come l’Europa. Bisogna capire che la storia non è finita, che se si vuol vivere secondo la propria identità bisogna essere disposti a difenderla e a pagare i prezzi politici ed economici che ne conseguono.

     

    C’è un’ultima considerazione da fare, rilevante per gli ebrei, ma forse non solo. In Afghanistan è esistita per un millennio e mezzo una fiorente comunità ebraica, testimoniata documentalmente dal VII secolo (ma gli ebrei afgani vantavano una discendenza dalle tribù deportate dall’invasione assira, millecinquecento anni prima). È dagli anni Trenta del Novecento che inizia la sua distruzione, soprattutto grazie alla collaborazione fra l’Unione Sovietica e il re dell’Afghanistan Mohammed Nadir Shah. La persecuzione peggiorò nei decenni successivi fino a un livello quasi nazista e molti ebrei scapparono prima nell’India amministrata dalla Gran Bretagna, che li discriminò pesantemente e poi, quando fu possibile, in Israele e negli Stati Uniti, dove esistono ancora comunità eredi dell’ebraismo afgano. Nel 1948 gli ebrei afgani rimasti erano circa 5000, dal 2005 è restato a Kabul solo un ebreo, Zablon Simantov, che si ostinava a tener aperta la sinagoga e a cercare di recuperare i libri della Torah sequestrati dagli islamisti. In un’intervista di fine aprile a un giornale israeliano, Simantov annunciò che non si fidava della protezione americana, temeva il ritorno dei talebani e dunque intendeva rinunciare alla sua lunga resistenza e rifugiarsi in Israele in autunno, dopo le feste ebraiche (https://www.timesofisrael.com/expecting-return-of-taliban-afghanistans-last-jew-plans-move-to-israel/). La conquista islamista è arrivata ancora prima di quel che avesse previsto. Non sappiamo quel che gli è accaduto, se sia riuscito a scappare, o rischi di essere oggi fra le vittime. Certamente con lui si chiude una storia millenaria, come quasi tutte quelle delle comunità ebraiche negli stati islamici.

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