Skip to main content

Scarica l’ultimo numero

Scarica il Lunario 5784

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati

    Da oggi in libreria il trattato del Talmud ‘’Sukkà’’ (Capanna)

    È disponibile in libreria il trattato del Talmud “Sukkà” (Capanna) edito da
    Giuntina e a cura di Rav Riccardo Shemuel Di Segni, con traduzione in italiano
    commentata e testo originale a fronte, note, schede tematiche, un nuova
    appendice sulle regole ermeneutiche talmudiche, illustrazioni e postfazione di
    rav Adin Even Israel Steinsaltz sulla storia del Talmud. Pubblichiamo di
    seguito un estratto dell’introduzione di Rav Riccardo Shemuel Di Segni.

     

    ll tema di questo trattato è la festa di Sukkòt. Questa festa, delle
    “capanne”, è la terza, dopo Pèsach e Shavu‘òt, delle tre
    feste di pellegrinaggio prescritte dalla Torà, È una festa che dura sette
    giorni. Nella sua istituzione biblica questa festa si caratterizza per due
    regole principali.

    La prima è quella della sukkà, la capanna: Nelle capanne
    (sukkòt) risiederete per sette gior­ni, ogni cittadino in Israele
    risiederà nelle capanne. Affinché le vostre generazioni sappiano che ho fatto
    dimorare i figli d’Israele nelle capanne (sukkòt) quan­do li feci uscire dalla
    Terra d’Egitto (Lev. 23:42). La regola della capanna consiste nell’obbligo
    di trasferirsi nei giorni della festa dalla propria abitazione in una
    abitazione temporanea. L’altra regola, quella degli arba‘à minìm, le
    quattro specie, è semplicemente prescritta ma non motivata: E prenderete
    per voi nel primo giorno il frutto dell’albero di bell’aspetto, rami di palma,
    ramo dell’albero dal fogliame fitto e salici di fiume, e gioirete davanti al
    Signore vostro Dio per set­te giorni (Lev. 23:40).

    La regola consiste nel prendere quattro specie vegetali, che la tradizione
    specificherà essere un cedro, un ramo di palma, due di salice e tre di mirto,
    e agitarle nelle giornate festive. Un’ampia tradizione successiva ha cercato di
    interpretare il senso di questa regola, che certamente si basa sul rapporto con
    il mondo vegetale e rappresenta l’unione di realtà differenti (che nelle varie
    interpretazioni simboliche possono essere le parti anatomiche di un essere
    umano, o le componenti di una comunità, o gli aspetti delle manifestazioni
    della realtà divina).

    La festa di Sukkòt si colloca in un momento particolare
    dell’anno, anticipando l’arrivo della attesa stagione delle piogge, e chiude il
    ciclo agricolo annuale; nel suo simbolismo comprende un legame con la terra e
    l’agricoltura, e un richiamo storico generico al periodo della permanenza nel
    deserto. Quindi, per molti aspetti, sottolineati proprio dal simbolo della
    capanna, è il momento in cui si riflette sulla debolezza e sulla precarietà
    dell’esistenza. Ma quasi paradossalmente è proprio questa l’occasione di
    gioire e far festa, confidando nella protezione divina. Effettivamente, quando
    esisteva il Santuario e il popolo ebraico convergeva a Gerusalemme
    per Sukkòt, quello era il momento in cui si esprimeva la massima gioia
    collettiva intorno al Santuario, celebrando con particolare solennità il rito
    della libagione dell’acqua, propiziatorio dell’arrivo di una stagione feconda
    di pioggia. Inoltre, per prescrizione biblica, Sukkòt era la festa
    in cui si offrivano in tutto settanta tori, che nell’interpretazione rabbinica
    simboleggiavano i popoli della terra, dando alla festa un significato
    universale.

    Di tutto questo si occupa il trattato Sukkà. Nel primo capitolo si
    parla della costruzione della sukkà: quali siano le sue dimensioni,
    altezza massima e minima, base minima, forma; quante pareti debba avere, se
    debbano essere complete o se bastino dei pali; come deve essere il tetto; se
    possa stare sotto a un’altra struttura o un albero; se si possa usare
    una sukkà fatta per scopi differenti dalla festa; con quali
    materiali si possa fare il tetto; se si possano consentire spazi vuoti e
    materiali non vegetali. Nella esposizione dell’argomento vengono introdotti
    alcuni principi legali antichi sulla gestione degli spazi vuoti. Da qui, per
    analogia, vengono fatti confronti con regole sulla gestione degli spazi nello
    Shabbàt. Il secondo capitolo continua l’esame delle regole sulla sukkà,
    con questioni legate alle modalità di costruzione; poi passa a discutere su
    come si debba adempiere l’obbligo, quanti pasti vadano consumati e di che tipo,
    e chi è esentato dall’obbligo. Nella parte finale, partendo da alcuni esempi
    pratici di comportamento si apre una trattazione aggadica che discute il
    significato dei segni astrali e le colpe che possono portare a determinate
    punizioni.

    Esaurito il tema della sukkà, nel terzo capitolo si espone il secondo
    precetto della festa di Sukkòt, quello delle quattro specie vegetali. Qui
    bisogna identificare quali siano le specie indicate, quanti rami o frutti
    debbano essere presi e di quali dimensioni, minime e massime; in quali
    condizioni fisiche debbano essere; se debbano essere di proprietà esclusiva o
    possano avere altre proprietà e origini; se debbano essere legate insieme o
    no; in che modo, dopo averle prese, si adempia il precetto.

    Con il quarto capitolo l’attenzione si sposta all’evocazione dei riti ai
    tempi in cui esisteva il Santuario, in che modo lo Shabbàt cambiava le regole,
    e cosa comportava il passaggio da Sukkòt all’altra festa nell’ottavo
    giorno, Sheminì ‘Atzèret. La fine del capitolo divaga sul tema della
    bontà e della tzedaqà. Il quinto e ultimo capitolo del trattato,
    relativamente breve, continua la narrazione di come veniva celebrata la festa
    di Sukkòt quando esisteva il Santuario: erano momenti di gioia
    speciale, notturna e diurna; la notte c’era una illuminazione straordinaria; di
    giorno una solenne processione accoglieva l’acqua che serviva per la libagione
    al suo ingresso nel Santuario, di cui si descrivono suggestivi particolari
    architettonici. Si parla dei sacrifici speciali che caratterizzavano la festa,
    e dei turni dei kohanìm che nella festa affluivano tutti al
    Santuario.
    In conclusione, Sukkà è un trattato per molti aspetti tecnico, che
    si dedica all’esame di due regole essenziali, ma che ha anche un grande respiro
    storico con ricordi di vita vissuta al cuore dell’antica pratica religiosa
    ebraica, e che apre ogni tanto delle finestre narrative
    e aggadiche suggestive.

    CONDIVIDI SU: