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    Dai carciofi al khamin la tolleranza è kosher. Riccardo Di Segni Rabbino Capo di Roma spiega perchè la cucina ebraica può aiutare il dialogo

    di Gabriele Isman (Tratto da La Repubblica
    Food)

    “Il vero strumento per abbattere le barriere
    dell’odio antisemita è la I cucina”. Riccardo Di Segni, 68 anni, da 17 è
    rabbino capo della comunità ebraica romana. Ne aveva 27 quando scrisse il suo
    primo volume sulla kasherut, Guida alle regole alimentari ebraiche. Nel 1998,
    poco prima di succedere a Elio Toaff, ha scritto un altro lavoro da esperto
    della materia: «Era interamente in ebraico, e forse da qualche secolo a Roma
    non si pubblicava un libro in quella lingua» dice sorridendo.

    I cibi kosher sono diventati una moda?

    «Pare proprio di sì, e ben venga. Le persone
    in fila per i dolci ebraici non sono certo intolleranti. Anche per questo
    l’antisemitismo si può combattere a tavola». Uno dei luoghi più amati a Roma è
    la pasticceria Boccione, nel cuore del quartiere ebraico. E’ vero che tra i
    clienti c’era anche Benedetto XVI?

    «Non confermo e non smentisco, ma è
    interessante come quei dolci siano frutto della nostra tradizione romana,
    risalente a un periodo in cui la cioccolata non esisteva neppure. La cucina
    ebraica può essere realmente una porta di conoscenza, e credo sia vero
    soprattutto per la tradizione romana e tripolina». Ma la cucina ebraica è sana
    come si dice?

    «Il tema è complesso. Nel mondo aschenazita
    un pilastro della tavola era la golden zuppe, la zuppa detta d’oro per il
    grasso usualmente d’oca, che soprattutto a latitudini fredde veniva riscaldata.
    Era considerata una prelibatezza, ma da medico resto inorridito per la quantità
    di colesterolo che spalma sulle arterie. Quindi non si può dire che kosher
    equivalga a sano: dipende dalla quantità e dalla qualità del cibo».

    Con la diffusione della moda kosher uno dei
    problemi è controllare che la regola venga rispettata. Chi svolge questo
    compito? I rabbinati?

    «Le verifiche sono in tre aree: ristoranti, a
    Roma ne seguiamo una quarantina; fabbriche anche di non ebrei che chiedono di
    poter realizzare cibi kosher, dal caffè alle industrie casearie; e banchetti
    per ricevimenti o matrimoni, e in questo periodo ne abbiamo tanti».

    I controlli nei ristoranti sono quotidiani, e
    i certificati di kasherut a tempo. «Abbiamo una squadra di masghiach, di
    controllori: ebrei preparati sulle regole alimentari, addestrati per verifiche
    che, in caso di dubbi, possono sempre rivolgersi al rabbinato. Ci sono anche
    locali che rinunciano ai certificati perché i controlli sono severi e può anche
    capitare che i documenti siano ritirati per inosservanze gravi delle regole».

    Kasherut ed ebraismo hanno influenzato anche
    l’alimentazione dei non ebrei? «Gli ebrei hanno vissuto in molte parti del
    mondo, e le loro usanze sono venute a patti con tradizioni locali e
    disponibilità delle materie prime, così in Paesi diversi sono sviluppate cucine
    diverse. A Roma fino a vent’anni fa chi mangiava il cous cous? A Livorno lo
    chiamano couscouscu. Sono piatti arrivati dal Nord Africa anche tramite la
    migrazione ebraica».

    E lei ha salvato il carciofo alla giudia,
    piatto ormai universale, dai dubbi del rabbinato di Israele.

    «Purché si usi il carciofo romanesco, più
    stretto in cima, che rende impossibile l’ingresso degli insetti, e lo si
    pulisca bene».

    L’ebraismo prevede il riposo dello shabat,
    che inizia il venerdì al tramonto e termina 25 ore dopo. Come si comportano i
    locali?

    «Di solito sono chiusi. Tutto comunque
    dev’essere cotto prima di shabat e i ristoratori non possono neppure essere
    pagati. Dal sabato deriva anche una parte molto interessante della cucina
    ebraica. Non potendo cucinare sono nate ricette destinate a resistere dal
    giorno prima: le zucchine marinate, gli aliciotti con indivia e poi il khamin,
    che significa caldo. È un grande pentolone con carne, patate, fagioli che si
    lascia sulle piastre elettriche già accese prima di shabat. Tre cose sono
    imprevedibili: i figli, gli ienneri, cioè i generi, e il khamin. E’ un antico
    proverbio ebraico-romanesco». ***

    TRE REGOLE DELLA KASHERUT

    Animali permessi e proibiti. Si possono
    consumare le carni di quadrupedi ruminanti e con l’unghia fessa: sì al vitello,
    no al maiale o al coniglio. Quasi tutti leciti i volatili, salvo i rapaci per
    il loro contatto con il sangue delle prede. Vietati gli animali striscianti o a
    stretto contatto col suolo: topi, serpenti, lucertole e insetti. Gli animali
    acquatici per essere leciti devono avere pinne e squame: proibiti molluschi,
    crostacei, frutti di mare e pesci di dubbia conformazione, come la coda di
    rospo o l’anguilla

    Macellazione rituale per quadrupedi e
    volatili. In ebraico è detta shechitah. E il macellaio rituale, lo schochet,
    deve conoscere a fondo le regole per avere la licenza rabbinica. Nella
    macellazione ebraica l’animale viene ucciso con un solo taglio alla gola per
    provocarne l’immediata morte e il completo dissanguamento. Viene poi eseguita
    la chiama bediqat, il controllo degli organi interni per trovare eventuali
    impurità. Qualsiasi animale non macellato secondo le regole è automaticamente
    illecito.

    Divieto di mescolare latticini e carni In tre
    passi diversi la Torah raccomanda di non cuocere “il capretto nel latte di
    sua madre”. La tradizione rabbinica ha quindi proibito la commistione
    nello stesso pasto di latte (o dei suoi derivati) e carne di qualunque animale;
    gli ebrei osservanti hanno quindi due servizi di piatti e stoviglie diversi,
    scomparti distinti in frigorifero, fino a spugne e lavastoviglie separati.

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