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    La Shoah ebbe inizio con il processo farsa al capitano ebreo Dreyfus

    L’Affaire Dreyfus ha rappresentato la crisi più profonda attraversata dalla Francia nei decenni tra la guerra franco-prussiana del 1870 e la prima guerra mondiale. E’ stato anche il sinistro debutto dell’antisemitismo moderno, un’anticipazione eloquente del genocidio che sarebbe stato tentato meno di mezzo secolo più tardi. Segnò anche la nascita del sionismo, il dramma che rivelò a Theodore Herzl la verità agghiacciante nascosta dietro il velo sottile e bugiardo della tollerante civiltà europa e lo spinse a reclamare una terra e una patria per gli ebrei.

    Per raccontare l’affare Dreyfus si potevano scegliere diverse strade. La via maestra sembrava quella dell’affresco storico, come fece Florestano Vancini nel suo Il delitto Matteotti. Roman Polanski e Robert Harris, sceneggiatore e autore del libro L’ufficiale e la spia, scritto già sapendo che l’amico Polanski intendeva trarne l’omonimo film, hanno scelto un indirizzo opposto. Herzl e la nascita del sionismo non compaiono affatto. Non c’è traccia neppure del violentissimo scontro che per anni divise la società francese a tutti i livelli, come mai era successo prima e mai sarebbe accaduto in seguito. Il film segue l’inchiesta del maggiore e futuro ministro della Guerra Georges Picqart, interpretato da Jean Dujardin, l’ufficiale che, pur nutrendo a propria volta pregiudizi antisemiti, sfidò le gerarchie militari e politiche dopo essersi reso conto che l’accusa di spionaggio contro il capitano ebreo Alfred Dreyfus era una montatura e che la vera spia era il colonnello Estherazy.

    Polanski segue l’inchiesta di Picqart, dai primi dubbi alla rivelazione dell’innocenza di Dreyfus, poi lo scontro con gli alti ufficiali pronti anche a sacrificarlo pur di non ammettere l’errore, fino all’irruzione di Emile Zola con il suo deflagrante J’Accuse, infine la teoria dei processi farsa sino alla riabilitazione di Dreyfus, 12 anni dopo la condanna, la degradazione con massima ignominia, la deportazione sull’Isola del Diavolo, scoglio sperduto e disabitato in mezzo all’oceano. Con un finale amaro: Picqart, ormai ministro, non restituisce a Dreyfus i gradi che gli sarebbero spettati senza l’ingiusta detenzione: “Il clima è cambiato. Non è possibile”.

    Polanski non calca la mano sulla ondata antisemita che impose prima la condanna, poi la difesa strenua di una sentenza ingiusta. La lascia trasparire con discrezione, come un’ombra tanto più temibile, tanto più soffocante perché mai denunciata strillando. Sono le battute degli ufficiali, le reazioni lasciate appena intravedere del popolo parigino, la lenta trasformazione dell’antico pregiudizio antigiudiaco in qualcosa di strutturalmente diverso e più micidiale: la fantasia montante del complotto, la creazione di uno spettro, quello della lobby potentissima scesa in campo per difendere Dreyfus.

    Sullo schermo campeggia solo la figura di Picqart, guidato da un senso del dovere e da una fede nella giustizia che fa premio sugli stessi pregiudizi antiebraici che lui stesso ammette. Tutti gli altri personaggi sono comprimari, incluso lo stesso Dreyfus, dipinto senza indulgere nella ricerca di una facile simpatia, ma al contrario algido e rigido come probabilmente era davvero. I protagonisti sono in realtà solo due, Picqart e l’antisemitismo, che non può essere mostrato troppo apertamente perché ne perderebbe in potenza, verrebbe derubricato a elemento drammatico del plot, scivolerebbe nella fiction. Evitando di mostrarlo nei dettagli, Polanski ne rappresenta invece in pieno la micidiale potenza incombente.

    Solo in un caso il regista mette in scena la violenza. La sera della degradazione, la folla attacca il negozio di un ebreo, marchiato con la stella di David, infrange le vetrine. Siamo a Parigi nel 1895, ma sembra Berlino o Monaco, la notte del 9 novembre 1938. Perché la tragedia destinata a concludersi con la Shoah iniziò con la degradazione del capitano Dreyfus e Polanski, che di quella tragica parabola aveva già portato sullo schermo, col suo Il pianista, l’epilogo nel ghetto di Varsavia ci tiene a sottolineare che la vicenda che sta raccontando fu l’uovo del serpente.

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