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    “La guerra russa ci ha svegliato. Senza pensiero critico le democrazie sono deboli” – Intervista a Gabriele Segre

    La libertà e la democrazia non sono mai valori completamente acquisiti. E questa guerra ce lo ricorda ogni giorno, mostrandoci una parte di mondo in fiamme, molto vicina a noi, che forse non conoscevamo abbastanza. Tutto è cambiato, e mai come adesso il futuro di tutti noi è costellato di punti interrogativi. «Bisogna ripartire dal pensiero critico – spiega Gabriele Segre, direttore della “Vittorio Dan Segre Foundation” – La condanna alla guerra russa è totale, ma dobbiamo comprenderne le origini, ovvero la comprensione delle identità». Shalom ha intervistato Segre.

     

    Dal suo punto di vista com’è cambiato il mondo dall’inizio della guerra russa?

     

    È come se l’Occidente si fosse risvegliato da un lungo sonno. Stiamo parlando di mondo occidentale, della sua visione e prospettiva verso la storia. Con la fine della Guerra Fredda, ancora prima che strategicamente e geopoliticamente ci siamo raccontati che la storia era finita, che la democrazia   era il sistema culmine per l’organizzazione sociale umana e che prima o poi, quella era una direzione quasi teleologica, quasi finalistica di ciò che doveva essere l’equilibrio di convivenza all’interno della società. Questo ci ha messo nelle condizioni di dimenticarci che esiste un altro pezzo di mondo. In altre parole, l’unipolarismo di cui si è tanto parlato a livello strategico e geopolitico, era prima di tutto un unipolarismo culturale, per cui al centro, e come unica visione possibile del mondo c’era il sistema democratico liberale con i valori che esso rappresenta. Oggi ci siamo risvegliati, e questo riguarda noi, perché il resto del mondo se n’è reso conto in altri momenti con altri drammi che questo unipolarismo culturale era in realtà fittizio. Esiste un multipolarismo anche culturale che vede visioni del mondo, sistemi di valori, credenze e prospettive della realtà, diversi. Non sto dando un giudizio di merito chiaramente, ma questa è la realtà dei fatti. 

     

    Cosa ha generato secondo lei questa visione unipolare dell’Occidente?

     

    Un sentimento per cui gli altri si sono sentiti non compresi, non visti nella loro esistenza. Come durante la politica del contenimento dell’Unione Sovietica nella Guerra Fredda, improntata dal riconoscimento dell’altro che era un nemico: questo doveva essere tenuto distante, ma veniva riconosciuto, aveva un’identità. Le politiche espansionistiche degli ultimi trent’anni, proprio per questa visione finalistica di unipolarismo culturale, hanno messo gli altri nella condizione di non essere visti come identità. Il problema principale da un punto di vista culturale non è tanto di non parlare con l’altro ma neanche di riconoscerlo. Abbiamo tolto dignità e riconoscimento dell’identità. 

     

    L’annullamento dell’identità è uno dei fattori principali di questa guerra russa. La “russificazione”, sia sul campo di battaglia sia per quello che riguarda il popolo ucraino, è d’altra parte una forma di privazione dell’identità di un paese.

     

    Certo. Non c’è nessun alibi e la condanna a questa grande tragedia della guerra, e a tutto ciò a cui assistiamo, deve essere totale. Ma dobbiamo comprenderne le origini. Io faccio un’analisi critica di quello che è stato, e delle mancanze di un Occidente che per trent’anni si è assopito in una convinzione, ma in realtà stava chiudendo gli occhi davanti ad altri pezzi di mondo. Davanti a quello russo, e in questo caso è evidente, ma anche quello cinese, e altri sistemi meno democratici, meno liberali, tutti questi sistemi tornano ad affermare la propria esistenza anche in maniera molto assertiva.

     

    Quanto incidono questi eventi sulla nostra identità? Possiamo considerare la ritrovata unità dell’Europa e dell’Alleanza un fattore rilevante?

     

    La ritrovata unità dell’Europa può essere tanto una buona notizia quanto un grosso pericolo. È ovviamente un’opportunità per rimettere al centro il nostro sistema, comprendere, ricompattare e rispondere. Ma la democrazia, unico come sistema, funziona solo se fa un processo di analisi critica di se stessa e della sua evoluzione costante, perché soltanto attraverso quell’analisi critica la democrazia è in grado di riconoscere i cambiamenti esterni, non soltanto come pericoli, ma come sfide a produrre i suoi anticorpi e rafforzarli. Nel momento in cui invece noi trattiamo la democrazia e i valori democratici liberali come assoluti, assiomatici, rinunciamo all’analisi critica, quello è il momento più alto di debolezza della democrazia. Se questi eventi ci portano a riprendere un lavoro interno di analisi critica delle mancanze e delle sfide da affrontare, e quindi ad adattare, a modificare e a ricomprendere quello che noi siamo senza una paura bloccante, bensì con una paura attivante di risposta proattiva, propositiva, allora il senso di unità ritrovato è un’ottima notizia. Se invece questa è un’altra occasione per vedere solo la minaccia, in questo caso da fuori, al sistema democratico che vogliamo salvaguardare e proteggere a tutti i costi, la democrazia rischia di uscirne ancora più indebolita, perché ha mancato il suo ruolo principale, ovvero quello di domandarsi sempre qual è la sfida futura.

     

    Tutti i giornali hanno scritto che Putin ha rimandato indietro le lancette della storia. È realmente così? E se è così, che significa tornare indietro? 

     

    Io non credo tanto alla metafora di riportare le lancette indietro nella storia per un semplice motivo: le conquiste culturali liberali e valoriali non sono mai definitive. La democrazia e il sistema democratico liberale, non soltanto in termini politici, ma anche valoriali, funzionano quando continuano a rimettersi in gioco. Bisogna continuare non solo ad esprimere valori ma anche la loro veridicità. Se noi rinunciamo all’atteggiamento critico prima o poi i valori conquistati li perdiamo. Perché proprio quei valori conquistati con il sangue non sono mai “una proprietà”. Ti appartengono quando riesci a mantenerli, a comprenderli, a rinnovarli e a portarli avanti. Nel momento in cui li dai come acquisiti la storia avanza veloce, non torna indietro. È un costante lavoro di rinnovamento della nostra promessa e delle nostre convinzioni.

     

    La capacità di una società di mettersi in discussione e cercare di comprendere l’altro, anche il nemico. Questo può aiutarci a mantenere i nostri valori quali la libertà e la democrazia.

     

    Non solo a mantenerli ma a rafforzarli, a renderli attuali. Fintanto che noi espelliamo l’altro, espelliamo le visioni alternative. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni. C’è un atteggiamento totalmente impermeabile alle critiche, per paura che il pensiero critico intacchi il fondamento di ciò che abbiamo conquistato. Il pensiero critico viene visto come un parteggiare per l’altra parte, non lo è affatto. Questo atteggiamento di impermeabilità verso il pensiero critico e anche verso la richiesta di critica soprattutto dall’interno sono volte a proteggere la democrazia, ma sono la maniera migliore per minarla. L’abbiamo visto anche con i movimenti populisti e con i movimenti considerati antidemocratici degli ultimi anni della storia del mondo occidentale. Se noi avessimo utilizzato quelle voci di dissenso non come attacchi alla democrazia, ma come opportunità di ricomprendere i valori che escono, avremmo rafforzato l’impianto democratico. Invece lo abbiamo reso più fragile, magari più protetto nel breve termine, ma più fragile davanti alla storia. La paura di perdere i valori è ciò che alla fine ci sta portando a perderli davvero. Dobbiamo affrontare le grandi questioni, le sfide alla democrazia, del rinnovamento dei nostri valori per non perderli.

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