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    Parashà di Shofetìm: Come si traduce shòchad in italiano?

    La parashà si apre con il comandamento di nominare giudici e poliziotti per ogni tribù e per ogni città. Nel secondo versetto la Torà comanda di “Non alterare la giustizia, di non fare favoritismi, e di non accettare shòchad, perché lo shòchad accieca i saggi (pikchìm) e fuorvia (vaysalèf) le parole dei giusti (tzadikìm)”, (Devarìm, 16:19).

                R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento a Devarìm cita il Midràsh Sifrè, nel quale i maestri spiegano che “Non alterare la giustizia” si riferisce al denaro che fa parte della disputa. “Non fare favoritismi” si riferisce alla decisione del giudice. La giustizia può essere alterata in due modi: Il giudice può raggiungere una giusta conclusione legale riguardo alla disputa, ma può emettere un verdetto contrario alla sua opinione. Questo costituisce una perversione della giusta conclusione legale. Nel secondo caso il giudice può formare la sua opinione sulla base di considerazioni soggettive influenzate dalle personalità delle due parti in causa. Questo consiste nel fare favoritismi.  

                La seconda parte del versetto tratta dello shòchad. Stranamente questo termine non è traducibile in italiano con una sola parola: c’è chi lo traduce “dono di corruzione” e chi lo traduce “non farti corrompere”, dando il giusto senso della frase senza però tradurla in modo preciso. In inglese  il termine “bribe” traduce il termine shòchad senza bisogno di circonlocuzioni. In italiano i termini “tangente” e “bustarella” sono alquanto recenti e sono descrizioni di come vengano fatti certi pagamenti illeciti, ma non traducono la parola shòchad.

                Nel suo commento a Shemòt (23:8) rav Hirsch suggerisce che la parola shòchad (shin, chet, dalet) è etimologicamente simile alla radice del verbo shachàt (shin, chet, tet) che significa scannare, e alla parola shàchat (shin, chet, tav) che significa fossa, tomba. Sulla base di questa ipotesi rav Hirsch afferma che lo shòchad indebolisce la vitalità spirituale e morale di chi lo accetta. La forza spirituale che fa sì che una persona possa fare il giudice è chiamata pikchùt (come pikchkìm nel versetto succitato), cioè una visione chiara dei fatti e della legge. La forza morale che fa sì che un giudice affermi solo quello che è giusto e vero si chiama tzèdek (come tzaddikìm nel versetto). 

                La legge ebraica, aggiunge rav Hirsch, estende il concetto di shòchad al di là del suo significato letterale limitato. Comprende non solo denaro o regali, ma anche dei semplici favori ricevuti da una delle parti. Nel Talmud (Ketubbòt, 105b) i maestri insegnano che in alcuni casi nei quali una delle parti in causa rimosse della polvere dalla giacca del giudice, il giudice si dichiarò squalificato dal giudicare in quella causa. Nello Shulchàn ‘Arùkh (Chòshen Mishpàt, 9) rav Yosef Caro (Toledo, 1488-1575, Safed) scrive che il giudice deve sentirsi completamente imparziale, altrimenti si deve squalificare dal giudicare. I giudici ebrei devono operare senza nessun compenso (Ketubbòt, 105a). Se devono rinunciare al proprio lavoro per apparire al bet din (tribunale) hanno il diritto di ricevere uno stipendio dai fondi pubblici, ma non dalla parti in causa. 

                R. David Meldola (Livorno, 1714-1819?, Amsterdam) nel suo commento Darkè David osserva che la parola shòchad è scritta in ebraico con le lettere shin, chet e dalet, senza la vav (per la “o” di shòchad). In questo modo, mancando la vav, la parola shòchad è un anagramma di chashàd che significa sospettare, perché il dayàn (giudice) diventa sospetto di alterare il verdetto. Inoltre la parola fuorviare (vaysalèf)  dalla radice samekh, lamed, pe, è un anagramma della radice pe, samekh, lamed che significa falsificare, squalificare, perché con lo shòchad il giudice viene squalificato dal giudicare. 

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