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SPECIALE PESACH 5784

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    Parashà di Vaykrà: Chi è più adatto a fare il chazàn?

    La prima parashà del libro di Vaykrà introduce l’argomento dei korbanòt, dei sacrifici, siano essi bovini, ovini o caprini o anche offerte farinacee. 

                R. Shimshon Nachmani (Modena, 1706-1779, Reggio Emilia) nella sua opera Zera’ Shimshòn, cita il Talmud Yerushalmi (Rosh Hashanà, 2:5) dove è scritto che nel libro di Shemuel (3:14) riguardo ai peccati dei figli di Elì, il Kohen Gadol, è scritto: “Il peccato del casato di Elì non sarà mai espiato né con sacrifizi né con offerte farinacee”. Su questo versetto R. Kahana commentò: il loro peccato non sarà espiato con i sacrifici e con le offerte farinacee, ma potrà essere espiato con la tefillà, con la preghiera. 

                R. Menachem Azarià Da Fano (Fano, 1548-1620, Mantova) in ‘Asarà Maamaròt (Chakòr Din, parte prima, cap.  22 e 23), osservò che dal versetto citato si può  dedurre che il peccato del casato di Elì non poteva essere espiato con i sacrifici, ma era  possibile con altre mitzvòt  come per esempio,  fare del bene (ghemilùt chassadìm)  con alacrità e costantemente, e con l’immersione nello studio della Torà. Cosa vi era quindi di speciale nella tefillà, che era segnalata come il solo modo per espiare il peccato? E inoltre r. Da Fano afferma che chi portava un sacrificio al Bet Hamikdàsh doveva anche fare teshuvà e confessare il proprio peccato e anche dire una tefillà per chiedere il perdono dell’Eterno, perché senza quella tefillà il sacrificio non era gradito. E pertanto, opinava r. Da Fano, se il sacrificio del casato di Elì con la sua tefillà non veniva accettato, a maggior ragione la sola tefillà non sarebbe bastata per espiare il peccato. 

                R. Nachmani non da’ una risposta all’obiezione di r. Da Fano, e si concentra sull’affermazione di rav Kahana nel Talmud Yerushalmi. Egli afferma che la parte più importante del sacrificio era la confessione e la preghiera. [Al giorno d’oggi che non abbiamo più il Bet Ha-Mikdàsh la preghiera è la sola cosa che ci resta]. Per una persona che ritiene che la sua tefillà non sia efficace, i maestri insegnano che si rivolga  a un chakhàm che chieda misericordia per lui (T.B, Bavà Batrà, 116a).  Da qui impariamo che la tefillà ha maggiore effetto nell’ottenere risultati quando viene da un chakhàm o da un uomo giusto. Per questo quando si deve scegliere un chazàn che conduca la tefillà nel bet ha-kenèsset si cerca una persona matura che ha figli, e che ha sviluppato in se il senso della misericordia e di far del bene al prossimo. 

                Anche tra i chakhamìm stessi vi sono differenze e ci sono coloro la cui tefillà è più efficace di quella di altri. Nel quinto capitolo del trattato Berakhòt (34b) è raccontato che r. Yochanàn Ben Zakkai che era il presidente del Sanhedrin, chiese a R. Chaninà ben Dossà di pregare per suo figlio malato. La moglie di R. Yochanàn gli chiese perché doveva chiedere a un suo discepolo, che era meno sapiente di lui, di pregare per la guarigione del loro figlio. R. Yochanàn rispose: ”Lui è come un servitore del Re mentre io sono come un ministro del Re”. Con questo voleva dire che il servitore del Re ha un più facile accesso presso il Re che un ministro. 

                R. Nachmani per spiegare il motivo per cui la tefillà di r. Chaninà ben Dossà era più efficace di quella del suo maestro R. Yochanàn, cita un passo del trattato ‘Eruvìn (65a) nel quale R. Chiyà bar Ashi afferma, a nome di Rav, che chi è turbato non dovrebbe pregare perché non potrebbe farlo con la kavanà (intenzione e concentrazione) appropriata. [Così facevano gli antichi. Oggi dobbiamo pregare in ogni situazione perché pochi di noi sanno pregare con la kavanà necessaria}. R. Yochanàn come presidente del Sinedrio aveva troppe cose nella testa per poter pregare propriamente per un malato. R. Chaninà invece oltre ad essere un uomo giusto e saggio aveva la mente tranquilla e le sue tefillòt erano più efficaci.    

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