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    Parashà di Vezòt Haberakhà: Un atto di vera benevolenza

    Moshè rabbènu, il nostro maestro, morì  il 7 del mese di Adàr all’età di 120 anni, nell’anniversario della sua nascita (T.B., Sotà, 12b). Questo giorno è anche usato tradizionalmente per onorare i membri della Chevrà Kadishà, coloro che si occupano della sepoltura dei defunti. Nel Talmud babilonese (Sotà, 14a) è raccontato: “R. Simlai in una sua derashà disse: «La Torà inizia con un atto di benevolenza (ghemilùt chassadìm)  e termina con un atto di benevolenza. Inizia con un atto di benevolenza perché è scritto che ‘Iddio fece per Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle e li vestì’ (Bereshìt, 3:21). Termina con un atto di benevolenza perché è scritto: E lo seppellì nella valle (Devarim, 34:6)»”. Fu Dio stesso che si occupò della sepoltura di Moshè. 

                Da dove sappiamo che occuparsi dei morti è un atto di benevolenza? Dalle ultime volontà del nostro patriarca Ya’akòv che disse al figlio Yosèf: “E farai con me un atto di vera benevolenza;  non seppellirmi in Egitto” (Bereshìt, 47: 29). Nel Midràsh Bereshìt Rabbà (96:5) i maestri si soffermano sulle parole “vera benevolenza” e chiedono: “Se si tratta di benevolenza non può essere altro che vera, perché falsa benevolenza non è affatto benevolenza”.

                Rashì  (Troyes, 1040-1105) spiega che la benevolenza che si fa con i morti è vera benevolenza perché viene fatta senza aspettare nessuna ricompensa o riconoscenza da colui nei confronti del quale si fa benevolenza. 

                R. Yechiel Ya’akov Weinberg (Polonia, 1884-1966, Montreux) in Lifrakìm (p. 486) scrive che proprio con la morte di Moshè il Santo Benedetto ha comandato a Israele di seguire il Suo esempio e di occuparsi dei defunti. Da questo evento impariamo l’obbligo dell’atto di benevolenza del quale si occupano i membri della Chevrà Kadishà. Normalmente siamo abituati a considerare atti di benevolenza quelli che si fanno per aiutare i deboli e i bisognosi; con i vivi, non con i morti. Da questo punto di vista occuparsi dei morti potrebbe quindi essere considerato un atto puramente religioso ma non etico. Ed invece i maestri per insegnarci che chèssed, la benevolenza, è un concetto fondamentale della Torà, dissero che la Torà inizia con un atto di benevolenza e termina con un atto di benevolenza, equiparando l’atto di fare del bene ai morti con quello di fare del bene ai vivi. Entrambi gli atti rientrano nel concetto di chèssed

                Chèssed può essere definito come la partecipazione nella sofferenza del prossimo riconoscendo la scintilla divina che è in lui. Se però escludessimo il defunto dal chèssed, e lo considerassimo un semplice oggetto senza alcun valore, causeremmo grande sofferenza ai vivi e disprezzeremmo l’essere umano, creato ad immagine divina. Ed è proprio nell’atto della sepoltura, che si fa senza aspettare nessuna riconoscenza dal defunto, che si raggiunge il più alto livello di benevolenza. 

                R. Weinberg aggiunge che l’etica ebraica è fondata su una visione seria della vita. Il mondo non è un parco di divertimenti e la vita non è una commedia. E questo lo impariamo da quello che re Salomone scrisse nel Kohèlet (Ecclesiaste, 7:2): “È meglio andare in una casa dove vi è un lutto, che andare in una casa dove vi è un banchetto; poiché là è la fine d’ogni uomo, e colui che vive vi porrà mente”.

                 Moshè nacque il 7 di Adàr e morì centoventi anni dopo il 7 di Adàr. Quando leggiamo della sua morte, pensiamo anche alla sua vita. La Torà racconta che nessuno seppe dove fu sepolto. Per noi Moshè non è morto; i suoi insegnamenti vivono. E così a Simchàt Torà  terminiamo la lettura della Torà con questa parashàe iniziamo un altro ciclo di lettura con la parashà di Bereshìt.

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