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    ”Alla prossima leadership consegno la visione e il modello di gestione di una Comunità che guarda al futuro”. Intervista a Ruth Dureghello

    Per otto anni ha guidato da presidente la Comunità Ebraica di Roma, anche nella sfida più dura, la pandemia. È stata la prima donna a diventare leader degli ebrei romani e a ricevere come tale un Papa e un Presidente della Repubblica al Tempio Maggiore. Riconfermata nel 2019, ha lavorato secondo la “visione”, parola a lei cara, per la quale la Cer doveva essere un punto di riferimento per gli iscritti e un interlocutore autorevole del mondo ebraico, nella politica, per i media e per la cultura, facendo sempre sentire la sua voce. Ruth Dureghello, alla fine del suo percorso come presidente della Comunità romana, racconta a Shalom gli anni del suo mandato, alcuni durissimi. E quando le chiediamo come si diventa una guida per la comunità, risponde “leader si nasce. Non sei tu che decidi di esserlo, sono gli altri che ti scelgono”.

     

    Come ha trovato la Comunità quando è stata eletta per la prima volta presidente nel 2015?

    Raccoglievo un’eredità importante, di una visione sull’ebraismo, sulle nostre scuole, la cultura, i giovani, insomma su tutto quello che costituisce la vita ebraica di una Comunità. Sin da subito si è palesata la straordinarietà del lavoro che andavo a svolgere, in un mondo che iniziava già a cambiare…

     

    Quale è stata la prima sfida che ha dovuto affrontare da Presidente?

    La vicenda dell’Ospedale Israelitico, che è arrivata sul mio tavolo subito dopo il mio insediamento del 2015. Per risolvere la crisi dell’Ente, che rischiava di chiudere i battenti, il Consiglio della Comunità ha concentrato tutto il suo impegno, soprattutto morale: erano in gioco 700 posti di lavoro, le necessità di tanti cittadini romani, la reputazione della Comunità e di un ospedale che meritava gli fosse restituita la dignità che merita. Solo grazie a tanto lavoro di squadra e ad un metodo che ha caratterizzato la nostra visione sul mondo delle istituzioni, siamo riusciti a riportare in breve tempo l’ospedale alla sua ordinaria gestione. Oggi l’ente è un’eccellenza della sanità regionale e nazionale.

     

    Nel corso degli anni lei ha concentrato una buona parte del suo impegno e del suo lavoro sul fronte del rapporto con le istituzioni del mondo civile.

    Abbiamo ricevuto Capi di Stato, rappresentanti del governo, diplomazie, che hanno continuato a riconoscere nella nostra Comunità un punto di riferimento necessario per il dialogo con l’ebraismo italiano. Nel gennaio del 2016 ricevevo, assieme al Rabbino Capo Riccardo Di Segni, il Papa. Non posso dimenticare la visita al Tempio Maggiore del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per i 40 anni dell’attentato del 9 ottobre ’82, occasione nella quale siamo tornati a chiedere a gran voce “verità” allo Stato italiano. Sono stati molti gli eventi istituzionali che hanno visto la comunità protagonista nel dibattito politico, amministrativo e regionale.

     

    Tra queste occasioni, quale è stata la più emozionante?

    L’incontro del Presidente Mattarella alla Sinagoga con gli studenti delle scuole ebraiche. Era il 21 febbraio del 2020. Il Capo dello Stato è stato accolto dai ragazzi e non veniva a deporre corone o a ricordare momenti bui della storia. Quel giorno eravamo “il luogo” di un’identità e di una speranza per il futuro.

    Poche giorni dopo quella visita è iniziato il periodo più difficile, l’emergenza pandemica.

    Il momento più triste del mio mandato è stato quando, la sera del 9 marzo 2020, alla vigilia di Purim, con il Rabbino Capo, in una telefonata che non dimenticherò mai, siamo stati costretti a prendere la decisione più dura: chiudere le sinagoghe a causa della pandemia. Per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale, si chiudevano i templi. Ci siamo assunti una responsabilità importante per la salute e la salvaguardia dei nostri iscritti. Le difficoltà, le crisi nei diversi ambiti, sono arrivate tutte insieme, in una situazione straordinaria mai vista. Ma la chiave per venirne fuori è stata affrontare la pandemia con la consapevolezza che potevamo farcela. Così abbiamo costituito una unità di crisi, la gestione delle persone risultate positive al virus e dei ricoverati, poi l’assistenza psicologica assieme a tutte le misure necessarie per tutelare la collettività. Abbiamo risposto all’emergenza, decidendo rapidamente come aiutare gli iscritti, consapevoli che anche se avessimo “perso” in termini economici, avremmo comunque investito nel futuro. Questo è ciò che deve fare una comunità. Appena finita l’emergenza pandemica è arrivata la guerra in Europa. Abbiamo assistito intere famiglie attraverso le iniziative dei singoli, delle nostre organizzazioni e insieme all’UCEI siamo stati in grado di accogliere alcune famiglie ebraiche. Grazie ad iniziative di volontari siamo riusciti anche a far recapitare cibo e rifornimenti agli ebrei ucraini.

     

    Assieme alla pandemia e alla guerra russa in Ucraina è arrivata la crisi economica. Sul fronte dell’amministrazione comunitaria, quale è il suo bilancio?

    Ci siamo sempre presi le nostre responsabilità, anche nella gestione, che non ha mai sacrificato gli utenti, con l’obiettivo di accrescere il benessere e la possibilità di vivere e crescere nella comunità. Siamo andati all’esterno alla ricerca di fonti di investimenti. Non abbiamo aumentato per molti anni le rette scolastiche. Il fundraising, a livello internazionale e nazionale, ormai è un fatto consolidato. Adesso la nostra Comunità vanta un modello di gestione efficace, che mi auguro sia raccolto dalla futura leadership.

     

    La parola “visione” ha contraddistinto il suo mandato. Che visione lascia in eredità a chi guiderà la Cer per i prossimi anni?

    Lasciamo una comunità che ha un bilancio in ordine, una tranquillità economica che le permette di continuare a costruire. Lasciamo un patrimonio sano e incrementato, una serie di servizi, la scuola sulla quale abbiamo investito molto con programmi didattici eccellenti e lasciamo un museo che rappresenta oramai una eccellenza nel mondo. La mia visione della Comunità è quella che esprime unitarietà, armonia, una dialettica interna che deve essere un valore aggiunto della nostra identità e per ciò che rappresentiamo all’esterno. Sono stati anni spesi a mediare per essere l’espressione di tutti: questa, lo dico a chi verrà dopo di me, è una grande mission, essere una leader di tutte le singole identità che compongono la Cer.

     

    Con le nuove sfide che stiamo affrontando in questi ultimi anni si è evidenziata una certa difficoltà di gestione delle singole comunità. Quale è secondo lei il profilo della leadership ebraica del futuro?

    Ogni comunità ha la sua storia e la sua tradizione. Ciascun luogo esprime in termini di leadership elementi diversi perché porta con sé un bagaglio culturale peculiare. La qualità dell’espressione di un leader passa per la capacità di ascolto e per la coerenza con i propri valori. Essere leader è una dote. Un leader è tale non perché lo vuole, ma soprattutto perché gli altri lo riconoscono tale. Insomma, sono gli altri che ti scelgono.

     

    Quanto ha contato essere una donna in questa esperienza?

    Il fatto di essere una donna non l’ho mai vissuto come una condizione speciale nel ruolo che svolgevo. Ho trovato sempre un grande rispetto in ogni tavolo, sia religioso che politico.

    In questi anni il rapporto costruito con il Rabbino Capo è stato un punto di forza: ci sono stati momenti di confronto, ma ciascuno ha interpretato molto bene il proprio ruolo. In ogni momento la mia leadership ha camminato accanto all’ebraismo ortodosso. E i risultati raggiunti sono stati il frutto di questa collaborazione.

     

    La Comunità di Roma è la più antica e grande d’Italia. Come ha vissuto il suo rapporto con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e con la Presidente Noemi Di Segni?

    Con Noemi Di Segni ho iniziato a lavorare quando entrambe ancora non eravamo presidenti. Il nostro rapporto personale è sempre stato nutrito dalla stima reciproca e dal rispetto. Diverso è stato il rapporto politico: quello tra la nostra comunità e l’Ucei è storicamente segnato da una dialettica non sempre serena. La nostra visione politica spesso non ci ha visto convergere, ma quando abbiamo affrontato assieme a Noemi Di Segni molte situazioni, soprattutto in questi ultimi anni, abbiamo creato e costruito le cose migliori. Questo è un segnale che voglio lasciare. Si può discutere, ma quando si ha chiarezza e comunanza di obiettivi si può sempre trovare insieme una sintesi.

     

    C’è un messaggio che vuole consegnare alla leadership che guiderà la Comunità di Roma per i prossimi anni?

    Il mio consiglio è di non perdere mai la dimensione umana e morale del ruolo che questa comunità ha, sia come interlocutore con l’esterno sia nella gestione interna. La nuova leadership dovrà interpretare con serietà e responsabilità il suo ruolo guida in anni ancora difficili, tenendo sempre presente quanto la credibilità ed il rispetto che oggi abbiamo vadano coltivati ed alimentati ogni giorno con determinazione, coerenza e chiara visione del futuro.

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