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    Elezioni UCEI: “Priorità a tzedakà, giovani, lavoro e studio della lingua ebraica’’ – Intervista a Gavriel Levi, capolista di ‘’Dor Va Dor’’

    Domenica 17 ottobre gli ebrei italiani voteranno per il rinnovo del Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Shalom ha intervistato i capilista delle 5 liste che si presentano a Roma. Ecco di seguito l’intervista a Gavriel Levi, capolista di “Dor Va Dor”.

     

    In che direzione sta andando l’ebraismo italiano? Quali sono le questioni più̀ concrete ed imminenti da affrontare per l’Unione?

    Siamo molti di meno. Negli ultimi 60 anni siamo diminuiti più del 40%. Questo fatto crea problemi organizzativi che diventano prima problemi educativi e dopo problemi di identità. In molte comunità sotto i 13-14 anni abbiamo anche meno di 8 bambini per fascia di età. Durante gli ultimi 10 anni (specie dopo il covid) molti giovani fra i 18 ed i 35 anni hanno perso o non hanno trovato lavoro. Molti hanno anche famiglia, o non possono fare famiglia. In Europa gli ebrei italiani sono in percentuale quelli che conoscono meno la lingua ebraica. Conoscere l’ebraico è un potente strumento identitario.

    Quanto pensate che conti l’ebraismo ortodosso nella conservazione dell’identità̀ bimillenaria dell’ebraismo italiano?

    L’ebraismo italiano è sempre stato un ebraismo ortodosso nel cuore e un po’ meno nella pratica. Oggi almeno 15% degli ebrei sono modern ortodox nella pratica (shabbat, kasherut, miqve). Dall’altro lato ci sono molti ebrei che si sentono profondamente ebrei , ma non sanno come formare una famiglia ebraica, né come dare un’educazione ebraica ai figli. Il matrimonio inter-religioso, comunque affrontato, rende ancora più complicato questo obiettivo. Secondo la Torah, l’educazione ebraica dei primi anni dipende quasi totalmente dalla mamma.

    Sul fronte dei giovani, dalle grandi comunità̀ partono ogni anno sempre più ragazzi per Israele, dove intraprendono nuovi percorsi di formazione e anche professionali. Come si possono aiutare i giovani delle comunità̀ in cui non ci sono scuole ebraiche ad acquisire conoscenze che possano agevolare esperienze in Israele? E come si possono aiutare quelli che restano a vivere in Italia? 

    I giovani che partono in Israele ( ma anche in Europa e negli USA) si contano a decine e in genere appartengono alle classi economiche alte. Le esperienze sono simili a quelle degli ebrei francesi ed inglesi, solo che questi son molti di più e quindi meglio organizzati. La sochnùt fa comunque molto. Quelli che restano in Italia sono molto più facilitati se vanno nelle grandi città. Rimane il problema della crisi economica e di quelli che non hanno una nuova qualificazione per trovare un nuovo lavoro.

    Come portare scuole ebraiche e bet haknesset nelle città italiane dove non ci sono?

    Batè hknnesset non mancano nelle piccole comunità. Mancano in alcune zone di Roma: in assoluto i frequentatori dei batè haknesset (di shabbat) non arrivano al 20% della popolazione ebraica. Per le scuole ebraiche il problema è, come detto, il numero. Il Talmud Torà è nelle piccole comunità uno strumento eroico, e l’UCEI dà un aiuto importante. Ma i numeri bassi pesano sempre di più.

    Cosa può̀ fare Roma per le piccole comunità̀? E cosa vorreste importare del modello Roma nelle altre realtà̀ ebraiche italiane?

    Roma può aprire aree di accoglienza organizzata per brevi periodi (specie per i ragazzi 6-18 anni).

    I movimenti giovanili potrebbero essere supportati. In questo senso Roma potrebbe imparare molto dalle piccole comunità, organizzando in tempo per coprire le aree urbane poco servite e isolate. Sto parlando di 3000 ebrei almeno.

     

    In sintesi, quali sono le vostre proposte concrete per gli ebrei italiani?

    • Un grande progetto per la lingua ebraica (un mese di ulpan pagato in Israele).
    • Un grande progetto sulla tzedakà e sul lavoro, supportando anche il volontariato che già esiste.
    • Un grande  progetto per investire economicamente all’interno delle comunità.
    • Dimostrare di essere utili sul serio anche alla popolazione non-ebraica.

    Il nostro modello è quello delle comunità valdesi: parlano poco e fanno molto. Per questo motivo, pur essendo numerosi come gli ebrei ottengono dall’otto per mille quasi nove volte più dell’UCEI.

    Ci piacerebbe che in futuro almeno il 15% del bilancio UCEI vada per progetti misurabili su tzedaka, giovani, lavoro, ebraico.

    Vorremmo inoltre che gli ebrei di Roma vadano più spesso nelle piccole comunità e quelli delle piccole comunità vengono più spesso a Roma. Non solo i dirigenti, ma tutti.

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