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    Hanukkà, i Maccabei come vessillo

    Hanukkà, la festa delle luci, è una ricorrenza che si celebra il 25 del mese ebraico di Kislev (novembre-dicembre) e ricorda con le sue fiammelle tremule, accese per otto giorni sulla lampada a nove bracci (hanukkià) avvenimenti accaduti tanti secoli prima in terra d’Israele. È da evidenziare che essa è collegata ad una delle pagine  più  avvincenti della storia del popolo ebraico impegnato in azioni di eroismo e di resistenza contro l’assolutismo politico dell’ellenismo dominante di quel periodo. Vicende storiche ed episodi che ripercorrono le persistenti e innumerevoli sfide che Israele ha dovuto affrontare in tante epoche per mantenere la propria identità e sopravvivenza. 

    Ogni anno, dunque, nelle case ebraiche e nelle sinagoghe, queste piccole fiamme tornano a risplendere, riportando gli ebrei a ricordare la  storia e la vittoria di un piccolo gruppo di uomini che animati nella fede nel D-o Unico riuscì a sconfiggere combattendo come leoni la malvagità e la crudeltà di Antioco  Epifane (il dio visibile), re dei Greci. E la lampada lucidata a dovere che sia di rame, di ottone, di bronzo o d’argento con le sue candele accese torna a testimoniare la fede nel miracolo di quel poco di olio che doveva durare un solo giorno e, eccezionalmente, si mantenne splendente per otto. A parte la storia che rievochiamo annualmente e fin da piccoli ci è raccontata, la domanda che  possiamo porci è se siamo ancora capaci oggigiorno di penetrare a fondo il valore simbolico di queste luci che recano una nota di gioia e di pura letizia nelle nostre abitazioni. 

    Quale valore hanno attualmente queste fiammelle? Per rispondere a queste domande è bene ripercorrere i tratti salienti degli eventi storici descritti nel primo e secondo libro dei Maccabei, testi considerati apocrifi e dunque non inseriti nel Tanach  (Bibbia ebraica). Ma veniamo ai fatti…

    La storia si svolge in terra d’Israele o Giudea, come era conosciuta anticamente sotto il dominio dei Seleucidi, una dinastia siriana ai tempi del secondo Santuario, all’incirca tra il 168 ed il 125  A.E.V. In quei tempi regnava su tutto il territorio Antioco IV che si proclamava Epifane (dio visibile o illuminato), nome trasformato dagli ebrei in Epimane, pazzo, viste le azioni terribili che compiva. Un personaggio che nella descrizione dei contemporanei e nell’analisi degli storici appare come un tipico despota del suo tempo: energico, crudele, ambizioso e avido di potere. Egli per molti anni tentò di creare in Israele un atmosfera favorevole alla completa assimilazione culturale degli ebrei all’ellenismo. Nominò dei Sommi sacerdoti fortemente ellenizzati tanto che uno di loro cambiò il suo nome da Giosuè a Giasone. Quanto ai giovani sacerdoti, essi trascuravano il servizio del Santuario per partecipare ai giochi atletici nei ginnasi che Antioco aveva fatto costruire a Gerusalemme. Dunque l’assimilazione alla cultura greca era tanto profonda da indurre anche coloro che osservavano i precetti a fondersi totalmente nel mondo ellenico, rinnegando così la propria fede e la propria cultura. Ovviamente il nemico non era solo Antioco di per sé con i suoi soldati dal quale ci si doveva difendere a causa delle violenze, ma esisteva un altro avversario, più subdolo che si insinuava tra gli ebrei per neutralizzare la loro diversità religiosa; esso era costituito dallo splendore del mondo greco con la sua multiforme scienza, sapere, erudizione, il quale specialmente a Gerusalemme suscitava interesse, comprensione e simpatia. Sebbene questa situazione di frattura tra gli ebrei ellenizzati e chi ancora osservava i precetti, il re non ancora contento desiderava completare in breve tempo la degiudaizzazione della Giudea e quindi emanò una serie di leggi che obbligavano gli ebrei sotto pena di morte ad abbandonare la religione dei loro Padri. 

    Fu proibita la circoncisione, l’osservanza del sabato e lo studio della Torà ed inoltre nel Santuario fu posta la statua del dio Giove, immolando dei maiali alla divinità. Una parte della popolazione si adattò, ma altri ebrei di fronte allo spettacolo della perdita della propria identità si oppose organizzando una resistenza che fondava le proprie basi sulla affermazione della propria identità ebraica. Sulle colline della Giudea cominciarono a formarsi bande di rivoltosi, i Chassidim, religiosi, contro i Reshaim, gli ebrei ellenizzati che aiutarono i drappelli militari greco-siriani a combattere contro gli ebrei osservanti. 

    Una famiglia, quella degli Asmonei o Chashmonaim, discendente da una dinastia sacerdotale, assunse  la leadership del piccolo esercito ebraico che si stava formando. Il piccolo gruppo degli Asmonei, composto da Mattatià, sacerdote a Modiin, un piccolo villaggio della Galilea, e dai suoi cinque figli, fu la prima a lanciare il segnale della rivolta facendo suo il grido: “Chi è con il vero D-o venga con me”. Prima di morire, Mattatià passò le consegne a suo figlio Giuda il Maccabeo. Il significato del nome Maccabeo è incerto: alcuni rabbini danno il significato di “martello”, il che sarebbe un allusione alla sua grande forza, altri affermano che ciò deriverebbe dalle prime lettere “Mi Chamocha Baelim”, “Chi è come te tra gli dei Signore”. Comunque, le autorità di occupazione  in un primo momento sottovalutarono il pericolo costituito da queste bande di combattenti in quanto essi erano pochi e male armati rispetto all’esercito che poteva contare su cavalli, elefanti ed ebrei ellenizzati. 

    Ma gli ebrei seppur in minor numero ebbero la meglio; guidati dai fratelli Maccabei riconquistarono Gerusalemme, entrarono nel Santuario ormai abbandonato, lo ripulirono togliendo tutte le impurità lasciate dai Greci e per riconsacrare il Tempio definitivamente  dovevano accendere la Menorah, il candelabro a sette bracci che doveva sempre rimanere acceso  nel luogo sacro. 

    La storia narra che i Maccabei riuscirono a trovare solo una piccola ampolla di olio puro sigillato dal Sommo Sacerdote tempo prima olio, che sarebbe bastato a tenere accesa la lampada per un solo giorno tenendo conto che per la preparazione di questo era necessaria la prima goccia spremuta dalle olive e per ottenere ciò erano necessari otto giorni. È scritto nella Ghemarà, commenti dei rabbini inseriti nel Talmud (Shabbath 21b) che l’olio di quella piccola ampolla durò miracolosamente otto giorni necessari per riaverne altro. In ricordo di questo miracolo i nostri rabbini istituirono una festa di lode e di ringraziamento al Signore da svolgersi ogni anno a partire dal 25 di Kislev  per otto giorni durante i quali si accende la Hanukkià ad otto bracci tanti quanti sono i giorni della festa accompagnata da un nono lumino detto Shammash, servitore in quanto  serve ad accendere gli altri lumi uno per ogni sera. 

    Questa è la storia. A questo punto vorrei brevemente fare alcune considerazioni e fornire degli spunti di riflessione sulle domande poste all’inizio del mio discorso. Innanzi tutto vi è da sottolineare che il termine Hanukkà non è mai menzionato nella Torà, né nella Mishnà, ma un accenno lo troviamo solo nella Ghemarà, dove si parla del miracolo dell’olio. Ciò sta significare che con il passare del tempo, l’importanza della vittoria dei Maccabei diminuì e affinché la festa di Hanukkà non fosse dimenticata, l’enfasi fu posta sul suo senso spirituale del miracolo avvenuto ed il simbolo della Menorà. 

    Inoltre è interessante notare che il termine Hanukkà deriva da una radice ebraica che ha vari significati, tra cui il più immediato è “inaugurazione” e si ricollega alla riconsacrazione del Santuario ad opera dei Maccabei. Un altro significato della radice della parola Hanukkà è Chinukh, educazione, cioè mettere le basi per la formazione di una persona. Non a caso la rivolta ebraica scoppiò quando il nemico tentò di colpire proprio le radici dell’educazione religiosa e culturale del popolo. Come sottolineavo prima, nel Talmud, opera enciclopedica, si trova appena qualche riga dedicata alla festa: un piccolo trafiletto sul miracolo dell’olio. Nulla sulle gesta dei Maccabei, sul loro valore, sulla vittoria finale. Il motivo sta nello stesso comportamento dei Maccabim stessi, i quali dopo aver compiuto azioni eroiche cedettero alle tentazioni del potere associandosi a quell’Ellenismo che tanto avevano combattuto i loro predecessori. Gli ebrei più osservanti si allontanarono da questi profittatori e conservarono più che il ricordo degli eroismi dei Maccabei, il ricordo delle fiamme che avevano brillato miracolosamente sulla grande Menorah del Santuario, queste luci che una volta accese e tutt’ora  diffondono con le loro fiammelle il miracolo avvenuto.

    Ritornando alle domande che ho posto inizialmente, i nostri Rabbini affermano che il miracolo nella tradizione ebraica è un evento che non esce mai dal corso della natura, ovvero non è mai un avvenimento fuori dall’ordinario. Il termine miracolo è tradotto in ebraico con nes, od, omofet. Lasciamo da parte  gli ultimi due termini e vediamo il primo. La parola nes dalla quale deriva nissim ha il significato anche di prove o stendardo. Allora potremmo dire che ogni evento che accade al popolo ebraico di negativo ha come conseguenza un risveglio spirituale e dunque deve servire da esempio, deve essere un vessillo, una bandiera e forse i primi Maccabei con il loro comportamento coraggioso simboleggiarono quel vessillo. Inoltre, per quanto riguarda il miracolo dell’olio, i nostri Maestri hanno dato differenti spiegazioni in merito. La prima è che probabilmente l’olio dell’ampolla fu diviso in otto parti ed ogni sera fu messo nella Menorah un ottavo in modo che le fiammelle potessero bruciare fino al mattino successivo. Un’altra spiegazione è quella che, come ho detto prima, il miracolo dell’olio è solo il simbolo di un qualcosa che è veramente accaduto al tempo dei Maccabei. Quel qualcosa è rappresentato da un piccolo nucleo di ebrei che si mantenne puro come l’olio e che è riuscito a risvegliare le coscienze di un popolo. Questo è un nes, un vessillo, una bandiera, uno stendardo. 

    Concludo tornando alle domande che ho posto in precedenza: siamo  ancora capaci oggigiorno di penetrare a fondo il valore simbolico di queste luci che recano una nota di gioia e di pura letizia nelle nostre abitazioni? Quale valore hanno attualmente queste fiammelle? La risposta è sicuramente affermativa se noi pensiamo che la lampada, ner, lo stoppino, petilà, e l’olio, shemen, usando, come ci racconta una storia Hassidica le loro iniziali, formano il termine nefesh, la persona vitale. La storia del miracolo di Hanukkà è una rappresentazione dell’enorme disponibilità di energia spirituale che noi abbiamo. Ecco il motivo di quanto sia importante accendere e far brillare le fiammelle durante la festa. 

    Nella storia di Israele, in ogni tempo, quando pare che ormai l’ebraismo stia scomparendo per distruzione o assimilazione, il miracolo dell’olio si ripete e quel piccolo nucleo di pochi fedeli riesce a mantenersi, a recuperare nuove forze e finalmente a trionfare riportando il popolo alla coscienza di se stesso e del compito affidato loro dal Signore.

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