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    In ricordo di mio fratello Dodi z.l., che ha comunicato più con il silenzio che con la parola

    In ricordo di mio fratello Dodi z.l., David Bahbout Ben Miriam che ha comunicato più con il silenzio che con la parola, parco nell’uso della parola e attento a dire solo cose veritiere.

     

    Viviamo in una società in cui il rumore e le parole sono componenti principali della vita. Siamo circondati da dispositivi che fanno rumore: se improvvisamente la radio o la TV smettono di funzionare ci adiriamo e magari cominciamo a colpire lo strumento perché pensiamo sia guasto, rendendolo davvero inservibile.  

     

    Il silenzio è imbarazzante e provoca spesso disagio. Il silenzio ha più contenuti della parola. Quando vogliamo trasmettere i nostri sentimenti più profondi lo facciamo meglio con la parola o con il silenzio?  Abbiamo decine di parole per chiamare ogni tipo di automobile, ma una sola vera parola per indicare un sentimento importante come l’amore.

     

    Vediamo cosa dicono in proposito le fonti bibliche in partire dal Tanach, per continuare poi con la Mishnà e il Talmud.

     

    1)    Il pianto e la parola

     

    Un passo in cui sembra prevalere la volontà di reagire rimanendo in silenzio è la storia di Giuseppe e i fratelli. L’odio dei fratelli non è espresso con parole da parte dei fratelli, ma piuttosto con l’azione violenta in cui con cui lo gettano nel pozzo. Non ci sono parole ma azioni. C’è anche da aggiungere che nel momento in cui i fratelli si presentano davanti a Giuseppe (viceré d’Egitto), Giuseppe non parla coi fratelli: Giuda parla in nome dei fratelli e Giuseppe ascolta, ma reagisce più volte piangendo per ben tre volte: quando i fratelli si riferiscono a lui  dicendo “uno non c’è”; poi quando vede Beniamino e infine dopo il discorso di Giuda, quando allontana tutti presenti e finalmente parla e si rivela ai fratelli. 

     

    Il pianto è uno dei modi in cui si comunica ma senza parole: se il silenzio può essere gravido di tanti pensieri inespressi, il pianto è il modo manifestare per esprimersi senza aver bisogno di parole. Il pianto è un modo per esprimersi senza parole e certamente più efficace di qualsiasi discorso. 

     

    2)    “A Te (Signore) si addice il silenzio” (salmo 62): Aggiungere parole di lode per il Signore è considerato cosa negativa perché è come voler trovare parole che lo definiscono meglio, mentre nessuna parola sarebbe sufficiente. Un uso più limitato della parola è consigliato sempre per l’uomo: “una siepe per la saggezza è il silenzio” e quindi non solo non si deve parare troppo, ma ancora di più si deve dar e maggior spazio al silenzio.

     

    3)    Nel trattato delle benedizioni c’è la storia di un uomo che fu incaricato a fare da ufficiante per la preghiera. Quando ripeté la preghiera ad alta voce disse: “Dio è grande, eroico e terribile, potente e forte, degno di onore e potente”. Rabbì Haninà gli disse: Hai finito di elencare tutte le lodi del tuo Creatore? Quelle tre lodi che diciamo nella nostra preghiera “i grandi, potenti e tremendi” – se Mosè non li avesse pronunciati nella Torà, e i membri della Grande Assemblea non li avessero messi come parte della preghiera – non avremmo potuto per dirli. E tu dici e continui a parlare di Lui con tante lodi? Come quella parabola: un re in carne e ossa, che aveva mille migliaia di dinari d’oro, e lo lodiamo per quelli di argento: per lui è  offensivo!

     

    4)    I Maestri del Hassidismo hanno sottolineato il valore del silenzio: tra questi rabbi Nachman di Bratzlav: “Questa è la disgrazia dell’uomo – che ha imparato a parlare prima di sapere stare in silenzio. “ Il silenzio – è la più bella delle voci”.  “Nella giovinezza – si impara a parlare; Nella vecchiaia – a stare in silenzio. Tra i vari Maestri del Hassidismo, Il Baal shem tov è quello che ha insegnato i canti, Rabbi Menachem Mendel di Kozk è quello che ha insegnato il silenzio.

     

    Per apprezzare cosa significhi il Silenzio e il pianto leggiamo cosa scrive Shai Agnon nella sua introduzione al libro Yamim Noraim.

     

    Il cielo era sereno e la terra era silente, le strade erano linde e uno spirito nuovo aleggiava nello spazio del mondo. Io, un bambino di quattro anni, vestito con l’abito della festa, fui condotto da uno dei miei parenti alla casa di preghiera da mio padre e mio nonno. La Casa di preghiera era piena di persone ammantate con scialli di preghiera. corone d’argento cingevano il loro capo. erano tutti vestiti di bianco con i libri in mano. Molte candele infisse in candelabri di creta emanavano una luce meravigliosa assieme a un buon odore.

     

    Un vecchio stava piegato in preghiera di fronte alla teca e il suo tallet scendeva fin sotto al suo cuore e una voce gradevole e dolce usciva dal suo scialle.  E io me ne stavo alla finestra della casa di preghiera, tremante e attonito per le voci gradevoli e per le corone d’argento, per la luce meravigliosa e per  l’odore di miele che usciva dalle candele, candele di cera. Mi sembrava che la terra che avevo calpestato, che le strade che avevo percorso e tutto il mondo fossero soltanto un vestibolo per questa casa. Non sapevo ancora meditare sui concetti filosofici e non conoscevo il concetto di Maestà del sacro. Ma non c’è dubbio che in quel momento avvertii nel mio cuore la santità del luogo, la santità del giorno e la santità degli uomini che pregavano e cantavano nella casa del Signore. 

     

    Nonostante che fino a quel momento non avessi mai visto nulla del genere, non mi passava per la mente che tutto ciò potesse aver fine. Me ne stavo così a guardate gli uomini che erano nella casa del Signore, senza distinguere tra un uomo e l’altro perché formavano un tutt’uno con la casa, mi sembravano un unico blocco.

     

    Una grande gioia albergava nel mio cuore e il mio cuore si era legato con amore a questa casa a questi uomini e questi canti. Pian piano i canti cessarono e un’eco continuo a risuonare ancora per un po’ finché anche essa non cessò del tutto. All’improvviso la mia anima si accartocciò e scoppiai in un pianto dirotto. Mio padre e mio nonno si spaventarono e tutta la gente mi si mise intorno per consolarmi. Ma io continuavo a piangere e le lacrime continuavano a solcarmi il viso. “Gli uni chiedevano agli altri: Gli altri rispondevano: Chissà. 

     

    Adesso vi racconto che cosa mi aveva fatto piangere. nel momento in cui si interruppe la preghiera, all’improvviso si interruppe anche quella bella unità.  Alcuni tirarono via i propri scialli dal capo e altri cominciarono a discorrere..

     

    Quelle persone che all’improvviso avevano cambiato espressione avevano distrutto la bella immagine, l’immagine della casa e l’immagine del giorno. Per questo il mio cuore languiva e per questo singhiozzavo per il pianto.

     

    Questo racconto esprime molto bene l’idea che determinate atmosfere “parlano” e “comunicano” più di mille parole, ma chi è estraneo difficilmente può sentire e capire. Ecco perché dobbiamo “allenarci” a sentire il silenzio. Solo così potremo capire meglio il prossimo anche se non usa la parola.

     

    Possa ognuno trovare il modo di comunicare veramente con gli altri per capirli meglio e aiutarli per quanto è nelle possibilità di ognuno.

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