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    Rabbini di Roma nell’800 – Rav Mosè Sabato Beer, “l’amico der Papa”

    L’unico rabbino maggiore nato in Italia che ricoprì il ruolo di rabbino capo di Roma nell’Ottocento fu rav Mosè Sabato Beer (1768-1835), succeduto a rav Yehudà Leon (Leon di Leone, un rabbino proveniente dalla Terra d’Israele). M.S. Beer era nato a Pesaro e prima di essere nominato nel 1825 rabbino capo di Roma fu maestro e rabbino nelle comunità di Ancona, Guastalla, Verona e Livorno. Fu chiamato a Roma, diremmo oggi, per “chiara fama”. Sulla sua tomba, nel reparto dei rabbini al cimitero del Verano, in una iscrizione ormai quasi illeggibile ma di cui è stato conservato il testo, vi è una lunga ed elaborata composizione ebraica scritta dal suo successore rav Giacobbe Fasani (di cui abbiamo parlato nelle puntate precedenti). Nel testo, tutto infarcito di citazioni bibliche e talmudiche, si legge (in traduzione italiana): “E giunse la sua fama fino alla città eterna, alla magna Roma, priva in quel tempo di un reggitore, come una vedova […] E gli mandarono dei messaggeri e gli dissero: Vieni, e sarai il nostro Capo. E si compiacque Mosè di venire, e guidò il gregge per circa dieci anni. Le cinquanta porte dell’Intelligenza create da Dio tutte furono a lui consegnate […]”.

     

    Rav Beer era un visitatore frequente e tutt’altro che sgradito presso i pontefici Leone XII e Gregorio XVI. Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), il noto poeta romano, compose un sonetto in occasione della sua morte:

     

    La morte der Rabbino 

     

    È ito in paradiso oggi er Rabbino,

    che ssaría com’er Vescovo der Ghetto;

    e stasera a li Scòli j’hanno detto

    l’uffizzio de li morti e ’r matutino.

     

    Era amico der Papa: anzi perzino

    er giorn’istesso ch’er Papa fu eletto

    pijjò la penna e jje stampò un zonetto 

    scritto mezzo in ebbreo mezzo in latino.

     

    Dunque a la morte sua Nostro Siggnore

    cià ppianto a ggocce, bbe’ cche ssia sovrano,

    e cce s’è inteso portà vvia er core.

     

    Si ccampava un po’ ppiú, tte lo dich’io,

    o nnoi vedemio er Rabbino cristiano,

    o er Papa annava a tterminà ggiudio.

     

    9 maggio 1835 (sonetto n. 1513/1546, secondo le edizioni)

     

    Nel sonetto n. 594 (623) del 17 dicembre 1832, intitolato “Er motivo de li guai”, Belli scrive che “er Papa s’è ffatto ggiudio”, ossia aveva rapporti d’affari con il banchiere ebreo Rothschild (“er grann’abbreo Roncilli”), come descritto nei sonetti 290 (319) e 293 (320), rispettivamente del 8 e 9 gennaio 1832.

     

    Il papa di cui si parla nei sonetti del Belli è Gregorio XVI (eletto nel 1831). Il sonetto in suo onore composto da rav Beer in ebraico e in italiano (non in latino, come dice il Belli) è esposto al Museo della Comunità Ebraica di Roma (vedi immagine). Si tratta di un centone, ossia un collage di erudite citazioni bibliche con doppi sensi e giochi di parole e corredato di dotte note illustrative, sia nella parte ebraica che in quella italiana. La lode si conclude con le parole ebraiche “mispàr shanàw kappèl har haghil ‘ad amèn”, un’espressione adattata da Giobbe 36:26 e Genesi 31:21, in cui si può notare l’espressione kappèl har che richiama il nome del papa prima dell’elezione, Bartolomeo Alberto Cappellari.

     

    La lode al papa è preceduta da un’introduzione in cui si afferma: 

     

    Alla Santità di N.S. Gregorio XVI, Pontefice Ottimo Massimo, Felicemente regnante.

    Beatissimo padre, adorabile sovrano!

    Lungi dalla tumultuante arena delle cure del giorno, evvi per le lettere un asilo silenzioso, ove abitano raccoglimento e meditazione; ove lo studio ha prevenuto il giorno, la lampana illumina il travaglio nel mezzo della notte e l’applicazione tranquilla e posata dolcemente invita al lavoro gli sforzi del genio; ed è allora che àpresi il Tempio consecrato al culto delle Muse […]. Pieno di profondissima venerazione, ed a’ Pie’ dell’Augustissimo Trono genuflesso, mi prostro, inviando al Cielo il voto solenne del mio cuore “Dio salvi Gregorio”, Amen.

    L’umilissimo devotissimo obbedientissimo servo e fedelissimo suddito

    Mosè Sabbato Beèr Rabbino Maggiore, Roma, li 15 Novembre, 1833.

     

    Benedetto il Signore per non dover più genufletterci ai piedi del Trono Pontificio e di chi ci è seduto sopra! Non più “umilissimi devotissimi obbedientissimi servi e fedelissimi sudditi”, ma liberi cittadini di un libero Stato.

     

    Di rav Beer è noto anche un altro sonetto, in ebraico e latino, con annotazioni in italiano, composto nel 1809 in onore di “Napoleon rishòn [primo], protettore, imperatore, re”, che si trova alla Biblioteca Nazionale e dell’Università ebraica di Gerusalemme, oltre che nelle case dei discendenti di rav Beer, fra cui ricordiamo Sergio Piperno Beer (1906-1976), benemerito presidente per 20 anni dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, come si chiamava a quell’epoca il massimo organismo istituzionale dell’ebraismo italiano. 

     

    Rav Mosè Sabato Beer morì a Roma nel 1835 e in sua memoria fu composta un’elegia funebre in ebraico, probabilmente per mano di rav Giacobbe Fasani, autore anche dell’iscrizione sulla lapide ricordata sopra. È interessante ricordare che rav Fasani fu “rivale” di rav Beer nella gara per l’assegnazione di una composizione poetica in occasione dell’elezione del papa Gregorio XVI, gara vinta da Fasani con 9 voti a favore contro gli 8 ricevuti da Beer.

     

    Per saperne di più:

    A. Berliner, Storia degli ebrei di Roma, Rusconi, Milano 1992 (Bompiani, Milano 2000), pp. 293-297, 375.

    A. Milano, Il ghetto di Roma, Roma, Staderini ed., Roma 1964, pp. 115-118, 394.

    G.G. Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Bruno Cagli, Avanzini e Torraca ed., Roma 1964, 5 vol. 

    G.G. Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, ed. integrale, Grandi tascabili economici Newton, Roma 1998, 2 vol.

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