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    Il discorso di Rav A.S. Toaff z.l. nel sessantesimo anniversario della nuova Sinagoga di Livorno

    Or sono sessant’anni, il 24 Elul 5722- 23 settembre 1962 (92° della Breccia di Porta Pia in data ebraica…), veniva inaugurato il nuovo Tempio di Livorno, opera dell’Architetto Angelo Di Castro, con solenne cerimonia condotta dal Rabbino Capo Alfredo Shabbetai Toaff, coadiuvato dai Rabbini Elio Toaff e Bruno Ghereshon Polacco.

    In occasione del primo Kippur celebrato in quella sede, ove prima sorgeva l’imponente e famosa antica Sinagoga, venne stampato e diffuso un discorso di quello che è un Maestro fondamentale e di riferimento, anche storico e per il minagh, il rito, peculiare livornese che era appunto Rav A.S.Toaff.

    Succedette ad un altro grande ed amato Maestro, il Rabbino Samuele Colombo, assumendo ufficialmente la guida della Comunità nel 1924.

    Tra i suoi Maestri nomi quali Elia Benamozegh che gli conferì il primo titolo rabbinico (Maskìl) quando Toaff era appena diciottenne: ottenne il massimo titolo rabbinico (hakham) nel 1903, esaminato da una commissione presieduta da Rav Samuele Colombo e della quale facevano parte Cesare Shealtiel Fiano, altro Rabbino livornese, e Donato Camerini, Rabbino di Parma.

    Divenne poi anche Direttore del Collegio Rabbinico Italiano ed insegnò in ambito pubblico, anche universitario (tra i suoi maestri Giovanni Pascoli): sionista, non aderì mai al partito fascista e, per queste sue caratteristiche, unite all’essere ebreo e Rabbino, venne “osservato” dal regime.

    Autore di numerosi saggi, traduttore e appunto insegnante, in parallelo ovviamente con l’attività rabbinica, è stato testimone del drammatico passaggio storico determinato dalle persecuzioni e dalla guerra.

    Profondamente legato alla città e dalla città stimato, quando mancò terrenamente, il 18 novembre 1963, l’allora Vescovo, Emilio Guano, dette ordine di suonare a lutto le campane delle chiese di tutta la città.  

     

    Kippur 5723

    L’inizio delle regolari ufficiature in questo nuovo Tempio sia di auspicio di vita, salute, felicità alla Comunità intera come dal profondo del cuore augura 

    il Rabbino Capo 

    A.S.Toaff

     

    Si legge nel Talmud (Sanhedrin 22°): “Diceva R. Hanà Bar Biznà in nome di R. Simon il Pio: Chi prega bisogna che tenga presente che la divinità gli sta dinanzi, secondo è scritto nel salmo (XVI9: Io pongo il Signore dinanzi a me continuamente”.

    Quanta compostezza, quanto raccoglimento, quanta devozione porremmo nella preghiera se pensassimo che con essa ci rivolgiamo direttamente a Lui, che Gli parliamo in seconda persona come si parla a chi ci sta di fronte, che ci inchiniamo a Lui come ci stesse dappresso faccia a faccia, secondo che esprime il nome quanto mai significativo di Shehinà, che la teologia e la ritualistica nostra, considerandolo sotto questo rispetto, gli hanno dato.

    Noi per contro ci siamo abituati a trattarlo, absit injuria verbis, con troppa familiarità non mantenendo la compostezza e la devozione che si richiederebbero, neanche nei momenti più salienti della preghiera, nella Musaf, nella Neilà, che è la conclusione e costituisce la raccomandazione suprema alla sua infinita bontà. Alla sua indulgenza senza limiti.

    Nella Musaf e nella Neilà abbiamo, non sembri irriverente la espressione, una corsa alla berahà, come se essa rappresentasse la massima, l’unica nostra aspirazione. Su di essa voglio richiamare la vostra attenzione, invitandovi ad una riflessione ponderata e spassionata.

    Nel 4° libro del Pentateuco (Numeri VI 22-27) si legge: “Il Signore rivolto a Mosè disse. ‘Parla ad Aaron e ai suoi figli in questi termini: Così benedirete i figli i Israele dicendo loro Ti benedica il Signore e ti protegga. Faccia risplendere il Signore il Suo volto su di te e ti conceda grazia. Volga il Signore la sua faccia verso di te e ti conceda la pace. Essi (i sacerdoti) porranno il mio nome sui figli di Israele e io li benedirò. È questa una delle pochissime formule di preghiere e di benedizioni di cui il Pentateuco ci offre il testo. Tale formula detta berahà meshulleshet “benedizione triplice” perché consta di tre parti distinte, proviene dunque direttamente da Dio e appunto per la grande importanza che la sua origine le conferisce non si può recitare, come non si recitano il qaddish, la qedushà, il barechù che nella preghiera pubblica e con minian, quando cioè siano presenti non meno di dieci uomini di età maggiore, ed è stata inserita nella ripetizione della ’amidà, prima della benedizione ultima. Eccezion fatta per i digiuni, non si deve dire nelle preghiere pomeridiane perché talvolta che la recita potrebbe, dopo il pasto, non mettervi tutta l’attenzione e la devozione che essa esige. Così la birchat cohanim figura nel nostro rituale nella ‘amidà della mattina dei giorni feriali, del sabato, dei capi di mese, e, in altri giorni segnalati, anche nella musaf. Generalmente la dice l’ufficiante: nei giorni festivi e in Rosh ha -Shanà, l’ufficiante la recita soltanto a Shachrith mentre a Musad e nel giorno di Kippur anche a Neilà, se ci sono uno o più Cohanim presenti nel Tempio debbono in quanto discendenti degli Aronidi, recitarla essi stessi. Ma perché la berachà abbia in questi giorni una importanza maggiore, ma perché, nelle feste, verso la dine della preghiera, i Cohanim compresi dalla gioia di essere liberi per poterla recitare, come si deve, pronunciano la benedizione in una disposizione d’animo tale che la rende più accetta. Da ciò, e dal fatto che i Cohanim dicono essi la berahcà dall’Aron anziché dalla tevà, dopo essersi tolti le scarpe, è nata nel pubblico la convinzione che essa abbia una importanza superiore al consueto, e si è generalizzata l’abitudine che alcuni conservano anche nei sabati normali che i genitori aggiungono alla benedizione che i Cohanim danno alla collettività la loro personale. È un uso buono simpatico, commendevole, una prova d’affetto ma che non va esagerato come da qualche anno avviene qui da noi. Le donne per rigorosa prescrizione ebraica non possono stare nel Beth ha-keneseth frammiste agli uomini. Da che esiste il Tempio, anzi, da che esisteva il Beth ha-miqdash, il Santuario nazionale in Jerushalajim, dove le donne avevano il loro post, la ‘azarath ha-nashim, distinto e ben separato da quello degli uomini, la ‘azarath Israel, in tute le sinagoghe della golà, grandi o piccole, antiche e moderne, alle signore è destinato il loro posto. Le ragioni della separazione essendo ovvie e facilmente comprensibili da chi conosce i principi elementari dell’ebraismo, mi dispenso dall’enumerarle. La nostra ritualistica che si occupa soltanto dei casi verificabili, non accenna nemmeno lontanamente alla possibilità che le donne si trovino nella sala degli uomini durante le ufficiature, e tanto meno nell’ora della birchat Cohanim. Oggi invece, noi siamo arrivati al punto che il primo giorno di Pesach, il primo di Rosh ha Shanà e il giorno di Kippur, i giorni dell’anno in cui il Tempio è più frequentato, molto tempo prima della birchat Cohanim, nella sala riservata agli uomini si riversa un numeroso elemento femminile. Le donne diano la berachà (adotto in mancanza di una migliore, questa espressione impropria) alle donne, nell’ambiente a loro riservato: le mamma alle figlie, le nonne alle nipoti, le suocere alle nuore, le sorelle maggiori alle minori, ma si eviti nell’intenzione di fare una cosa buona, una sconvenienza, La berachà che danno i Cohanim è valida per tutti i presenti, per gli uomini come per le donne, in qualunque parte del Tempio si trovino, né perde niente del suo valore se le donne non abbiano sul capo e sulle spalle il taleth o la mano del babbo, del marito, del nonno o del suocero.

    Parecchi anni or sono, quando nel nostro tempio monumentale durante la birchat Cohanim gli spostamenti non avvenivano, una vedova profondamente religiosa domandò al mio venerato predecessore se come potesse esser vicina all’unico figlio, orfano del padre che non aveva altri parenti. L’autorizzazione fu concessa purché madre e figlio rimanessero nell’atrio. Quantunque si trattasse di un caso eccezionale, l’accesso di una donna dove stanno gli uomini o viceversa non fu consentito. Mentre oggi vediamo donne invadere persino lo spazio destinato agli uomini, disturbando profondamente, in modo particolare finita la beracà il decoro e il prestigio delle ufficiature e la tranquillità che l’ufficiantedeve avere. Non so se queste mie parole franche, ispirate dal desiderio che le sacre solenne riunioni si svolgano secondo le norme che la tradizione prescrive troveranno tutti voi disposti ad uniformarvisi. La mancanza di sorveglianti che persuadano le signore ad allontanarsi specie dai posti dove è meno indicata la loro presenza, mi consigliano di affidarmi esclusivamente alla vostra comprensione, che mi auguro vogliate dimostrare. (…)

    I fatti sui quali ho richiamato la vostra attenzione non sono i soli che dimostrano il nostro allontanamento dalle pure fonti della Torah. Ognuno di noi, non sempre scientemente e per deliberato proposito, ma talora soltanto per ignoranza, ha passato nel dimenticatoio precetti, osservanze, buone usanze che, per dirlo con parole di Mosè, dovrebbero costituire agli occhi degli altri popoli la prova della sapienza e dell’intelligenza nostre. Una introspezione sincera, spassionata, s’impone e tanto più indicata e utile quando accompagni la preghiera. Facciamo che non abbiano a verificarsi le parole che il Salmista (Salmo LXXXIII,5) pone nella bocca dei nemici d’Israele:“ Venite, annientiamolo, si che più non sia nazione, e nome d’Israele non venga ancora ricordato” Dio alla cui bontà, oggi più che mai facciamo ricorso, vorrà perdonarci e iscriverci nel libro della vita, amen.”

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