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    Le foto scattate dai nazisti – Quando l’immagine non è una finestra sul mondo

    Alcune foto usate per documentare le deportazioni e la Shoah sono state scattate da nazisti. Su questa questione è tornato pochi giorni fa il New York Times con la storia di Herman Heukels, un fotografo olandese, nazista e collaborazionista, che nel giugno del ’43 fotografò gli ebrei ammassati nella piazza Olympiaplein di Amsterdam prima di essere deportati nei campi di sterminio. Nelle immagini scattate da Heukels ci sono i volti provati e angosciati di chi, con la stella gialla cucita addosso, ignorava il proprio destino. Ma nelle immagini non vediamo mai i nazisti a lavoro mentre ammassano con la forza gli ebrei nella piazza, né la polizia olandese, impegnata operosamente ad aiutare i tedeschi. Possono questi scatti documentare, o almeno contribuire a raccontare, la deportazione degli ebrei di Amsterdam? E’ una questione di filosofia dell’immagine che torna spesso sia nella storia della fotografia sia in quella del cinema.

     

    Il New York Times, ascoltate alcune voci di studiosi ed esperti, spiega che per anni le fotografie scattate dai nazisti sono state usate come documenti, senza essere contestualizzate. In questo senso, determinante è lo scopo con cui i fotografi (ma vedremo anche i cineoperatori) si mettevano all’opera. L’obiettivo di Herman Heukels era, oltre a quello di umiliare gli ebrei, pubblicare le immagini su Storm SS, un settimanale di propaganda nazista. Mentre l’obiettivo di chi mostrava, dopo la guerra, le foto di Heukels era far vedere la condizione degli ebrei di Amsterdam prima della loro deportazione. Secondo Machlien Vlasblom, storico olandese che ha recentemente pubblicato una biografia su Heukels, le immagini catturare ad Olympiaplein trasudano di ideologia nazista, e lo si vede anche da ciò che non si vede (la polizia, i nazisti, etc).

    Quello di Heukels non è un caso unico, perché molte immagini delle persecuzioni naziste furono scattate dai persecutori stessi. Janina Struk, autrice di “Photographing the Holocaust: Interpretations of the Evidence”, ha spiegato come dopo la guerra le foto scattate da passanti, persecutori e vittime fossero “mischiate” senza alcun criterio, e nessuno si chiedeva per quali motivi e da chi erano state scattate.

     

    Sturk, come riporta il New York Times, sostiene che per molti anni gli storici non hanno dato molta rilevanza ad alcune caratteristiche delle immagini, usando queste per illustrare testi, piuttosto che essere, esse stesse, usate “come un testo”. La situazione è cambiata negli ultimi anni: adesso si fa molta più attenzione al contesto in cui le immagini sono state realizzate, dicono gli esperti. Certo è che durante la Shoah i nazisti e i loro collaboratori hanno usato la fotografia ed il cinema come strumenti di propaganda.

     

    C’è un film israeliano, straordinario, del 2010 che affronta la questione, in termini sia storici che filosofici. Si tratta di A Film Unfinished di Yael Hersonski, che racconta la vicenda di un film di propaganda girato dai nazisti nel ghetto di Varsavia nel 1942, poco prima che questo venisse raso al suolo. Le immagini girate dai nazisti sono state usate come documento per decenni, prima che si comprendesse come il girato costituisse soltanto un’opera propaganda. E’ quando torna alla luce, dal silenzio di un archivio, una bobina con vari spezzoni del film, con gli ebrei rinchiusi nel ghetto costretti a recitare una parte e a provare le scene più volte, che si capisce il reale obiettivo della pellicola. Nell’opera di Hersonski a fare da controcanto alle immagini girate dai persecutori, che certamente sono un prezioso documento sugli strumenti e i metodi della loro propaganda, sono le voci dei sopravvissuti e dei testimoni. La distanza tra ciò che vediamo e ciò che ascoltiamo ci rende la dimensione dell’inganno e ci spiega come un’immagine non sia sempre da considerare una semplice finestra sul mondo.

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