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    Una seicentina per l’Europa. Da Amsterdam a Livorno, da Cracovia a Roma

    Un buon libro è spesso longevo. In genere, paradossalmente, tanto più longevo, quanto più vecchio: la carta su cui è stata stampata una cinquecentina è di qualità migliore, e la sua rilegatura è di fattura più accurata, rispetto a quanto ci si possa aspettare da un tascabile del XX secolo. E, se il merito di quest’ultimo consiste nell’essere alla portata di tutti i portafogli, quello che muove il bibliofilo nella sua ricerca di edizioni pregiate e rare è l’aspirazione all’equilibrio, alla stabilità, alla durevolezza se non all’immortalità: valori che un libro antico può trasmettere, rendendoli tangibili.

     

    Un buon libro ha spesso molte storie da raccontare. Alle vicende narrate nel testo si aggiungono, infatti, quelle vissute dai suoi lettori che hanno in qualche modo lasciato tracce sulle sue pagine.

     

    Nel caso del volume del Talmud Benveniste custodito presso l’Archivio storico della Comunità ebraica di Roma, la prima delle storie è quella del suo editore: Immanuel (o Imanoel) Benveniste.

     

    La sua edizione del Talmud, non sempre favorevolmente accolta in ambito ebraico, è inusuale soprattutto per le sue dimensioni: i suoi tomi, pubblicati tra il 1644 e il 1647, uscirono infatti nell’insolito formato in-quarto (260 × 195 cm. circa) invece che nel consueto in-folio. L’opera completa include, inoltre, il trattato Avodah Zarah, spesso omesso in tutto o in parte in altre impressioni.

     

    L’ASCER ne conserva un solo volume, stampato nel 1645 e contenente i trattati Pirkè Avot, Horayot, Eduyot, Bava batra, Makkot, Massekhtot ktanot; sul frontespizio appare il logo dell’editore: un leone rampante che sostiene, da destra, una torre, con una stella a sei punte a sormontare le due figure. Qualche studioso ha sostenuto che l’editore abbia utilizzato come “marchio di fabbrica” il blasone della propria famiglia; e l’ipotesi appare verosimile, considerato che all’epoca l’utilizzo delle proprie insegne araldiche su manufatti – per esempio, su oggetti donati alla Scola di appartenenza – era pratica comune anche per gli ebrei del ghetto di Roma.

     

    Di Immanuel non sappiamo molto: soltanto che apparteneva all’illustre lignaggio aragonese di cui portava il cognome, che arrivò ad Amsterdam passando da Venezia e che si sarebbe deciso a questo ulteriore trasferimento proprio perché la città sulle rive dell’Amstel offriva, allora, opportunità impareggiabili per l’editoria ebraica; pare che proprio dall’Italia si fosse portato diverse attrezzature per la stampa, tra cui i bei caratteri tipografici utilizzati un secolo prima a Riva di Trento da Jacob Marcaria. Ad Amsterdam fu attivo tra il 1640 e il 1659 e nelle sue opere, o nei suoi documenti, non menzionò mai il nome di suo padre; fatto, questo, piuttosto inusuale, che ha indotto alcuni a ipotizzare che i suoi genitori vivessero ancora nella penisola iberica e non fossero tornati all’ebraismo: sarebbe stato, dunque, inopportuno sotto ogni profilo – ovvero, poco conveniente per lui e rischioso per loro – farne il nome.

     

    Non meno interessanti dei contenuti a stampa, e delle vicende dell’editore, sono le note di proprietà manoscritte sul foglio di guardia. La prima porta la data del 14 Nisan 1694, è redatta in spagnolo e sottoscritta da Jacob ben Avraham Refael Ergas. La seconda situa il libro a Livorno, a metà XVIII secolo, ed è firmata da Isaac Nunes Vais (o Núñez Vaez, o Núñez Báez): potrebbe trattarsi del rabbino livornese Isaac Joseph ben Jacob Nunes Vais, curatore del Sefer Ha-Makhri’a e compilatore del siddur Siyakh Yizchak tuttora utilizzato nella preghiera quotidiana da buona parte del mondo sefardita.

     

    Delle migrazioni di questo mondo, anche la famiglia Ergas fornisce esempi paradigmatici. A metà Cinquecento Isaac, Samuel e Avraham Ergas risiedevano ad Ancona, erano definiti “portoghesi” e commerciavano con corrispondenti di Ferrara; nel 1605 Davide Ergas, alias Manuel da Cuña, alias Luis de Altuna, viveva ad Amsterdam ed era socio, con i fratelli Jorge e Balthasar Henriques, di una compagnia operante a Madrid. Altri Ergas si erano stabiliti a Livorno, dove nel 1678 cinque società commerciali portavano il loro cognome; tempo dopo, Jacob ben Refael Ergas andava da Livorno a Londra per mettersi in attività con Judah Supino; nel 1741 il rabbino Samuel Ergas si trasferiva invece da Tunisi a Napoli.

     

    I Benveniste che lasciarono l’Aragona, da parte loro, raggiunsero anche l’Impero ottomano: lì diversi eminenti rabbini portarono poi questo cognome. E dai Benveniste vantano di trarre origine addirittura alcune famiglie ebraiche polacche e lituane; per esempio quella degli Epstein, tra i cui membri più illustri vanno ricordati R. Jehiel Michal ben Aaron Isaac ha-Levi Epstein (1829-1908, Arukh ha-Shulhan) e suo figlio R. Baruch ha-Levi Epstein (1860-1942) autore, tra l’altro, di Torah Temimah e Mekor Barukh. Proprio sul frontespizio di quest’ultima opera il rabbino stesso dichiarava di discendere da un ramo di quella famiglia sefardita.

     

    Sotto l’ultima nota di proprietà, non datata ma vergata con grafia tipica dei primi decenni del Novecento, compare proprio un indirizzo di Cracovia, con i nomi di Elkan Urbach e Jakob Grunbaum. Anche in questo caso ci sarebbe una storia da raccontare: Urbach sopravvisse alla Shoah e nell’immediato dopoguerra si trovava a Bari, come rifugiato ex internato. È con tutta probabilità grazie a lui che questo volume, partito da Amsterdam tre secoli prima, è arrivato a Roma.

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