
Presentato al MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI secolo il nuovo romanzo di Roy Chen “Il grande frastuono” (Giuntina), con l’autore che ha dialogato con lo scrittore Giancarlo De Cataldo. Un incontro che ha guidato il pubblico attraverso un’opera che sfugge a ogni definizione tradizionale: un romanzo che rompe i confini di genere, fa ridere e riflettere, un testo che si fa “installazione vivente”, in cui il frastuono – se orchestrato – ha il potere di diventare musica. Un libro teatrale e talmudico, profondo e dialogico, che affronta temi universali attraverso la lente della tradizione ebraica, della memoria e dell’identità. Un viaggio ironico e commovente, in cerca del silenzio nel caos contemporaneo. Così Chen ci ricorda che “se non ridi, non piangi”, che l’età è una costruzione mentale, e che la voce delle donne è fondamentale, non solo nella letteratura ma nel mondo stesso. La sua è una letteratura che “non chiede il passaporto”, come definita dall’autore stesso, perché appartiene al paese immenso della letteratura. In questo confronto – a tratti intimo, a tratti provocatorio – emerge tutta la forza di un’opera che ci parla dell’oggi, del bisogno di dialogo e della bellezza di una complessità che non ha paura del dolore.
Durante la presentazione lo scrittore non ha rinunciato a stigmatizzare ciò che sta avvenendo in Medio Oriente, ricordando il pogrom del Nova Festiva avvenuto il 7 ottobre. Chen ha infatti auspicato una pace duratura tra palestinesi e Israele. Shalom lo ha intervistato per parlare del suo “grande frastuono”.
In questo romanzo c’è una miscela singolare di generi e linguaggi. È un libro che si fa voce, corpo, perfino “installazione”. Da dove nasce questa scelta?
Volevo scrivere un romanzo che rompesse i confini, che non si potesse rinchiudere in un genere preciso.
Un’opera letteraria che fosse al tempo stesso narrativa e teatrale. Un libro che suonasse come un’orchestra: il frastuono, quando è grande e orchestrato, può diventare musica. Viviamo in un mondo caotico, pieno di rumori, opinioni, notifiche. In mezzo a tutto questo, scrivere “Il grande frastuono” è stato il mio modo per cercare il silenzio. Un viaggio dentro il caos, in cerca di qualcosa di essenziale. Di tutti noi, in fondo. Siamo troppo abituati a stare dietro lo schermo di un telefono, ormai tutti dividono il mondo in bianco o nero, quando invece c’è bisogno di più sfumature.
In questo libro c’è tanto teatro, come anche in “Anime” e in “Chi come me”. Quanto influisce il teatro sulla sua scrittura?
Il teatro è dentro di me, come autore e come persona. La forma dialogica mi permette di mostrare le contraddizioni, le tensioni. E anche di far ridere, perché se non si ride, non si può nemmeno piangere. L’umorismo, anche quello ebraico, è una lente per guardare il mondo.
Ciò che colpisce di questo libro è la forte presenza femminile. Ha scelto di parlare per tre generazioni di donne: come mai?
La voce delle donne è necessaria. È necessaria nel mondo, nella vita pubblica, nella storia – e naturalmente nella letteratura. Ed è una voce che cambia, che sfida, che crea. Senza quella voce, anche il più grande frastuono sarebbe solo rumore. Senza quella voce, manca qualcosa di essenziale. In questo libro ho voluto creare spazi in cui quella voce potesse risuonare con forza, senza mediazioni. La letteratura non ha confini, non chiede documenti, e deve essere quel paese immenso dove tutte le voci trovano casa. Quando scrivo amo essere tante cose, vestire nuovi ruoli, essere giovane, anziano, uomo, e anche donna.