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    IDEE - PENSIERO EBRAICO

    Hoshana Rabbà: la voce del salice

    Il settimo giorno di Sukkot, Hoshana Rabbà, è uno dei momenti più intensi nel calendario ebraico. Se Sukkot è definita dalla Torah come zeman simḥatenu, “il tempo della nostra gioia”, questo giorno ne rappresenta il vertice spirituale. Una giornata di canti tradizionali e giri intorno alla tevà, di silenzio e preghiera, di riti antichi e significati profondi. È un giorno gioioso, sì, ma anche temibile: il Talmud insegna che a Rosh Ha-Shanah l’uomo viene giudicato, a Yom Kippur viene scritta la sentenza, e a Hoshana Rabbà essa viene firmata. La tradizione mistica aggiunge che in questo giorno avviene il sigillo finale del giudizio, in particolare per l’acqua, fonte di vita e simbolo di ogni benedizione terrena.

    La comunità ebraica di Roma, erede diretta della tradizione di Eretz Israel, ha sempre vissuto Hoshana Rabbà con grande trasporto. Già prima dell’alba le sinagoghe sono gremite, con uomini e bambini avvolti nei loro tallitot, presi da un’atmosfera che riecheggia i giorni solenni dei Yamim Noraim. In tante altre realtà Hoshanà Rabbà è molto meno sentita. Alcuni anni fa in un suo scritto Rav Somekh, parafrasando un detto talmudico famoso su Gerusalemme e il Bet HaMiqdash, affermava: “Chi non ha visto Hoshana Rabbà a Roma, non ha mai visto Hoshana Rabbà”. Il centro simbolico di Hoshana Rabbà è il rito della battitura delle aravot, i rami di salice. Una pratica antichissima, già menzionata nel Talmud e attribuita ai profeti. Alla fine della tefillah di Musaf, si prendono dei rami di salice, possibilmente con le foglie integre. Dopo le hakkafot, si procede alla battitura: dei colpi, secondo l’uso di molte comunità, tra cui quella romana, che fanno sì che le foglie cadano. Ma cosa rappresenta realmente questo gesto? Qual è il significato di questa “strana” cerimonia, che non ha un equivalente in nessun altro giorno dell’anno? La forza di questo rituale risiede nella sua pluralità di significati. I nostri Maestri, nel corso dei secoli, ne hanno offerto molteplici letture, ciascuna illuminante. Fra le specie del lulav il salice è quella che ha maggiore necessità di acqua. Cresce in prossimità dell’acqua, ne è totalmente dipendente. Il suo destino rappresenta il nostro: senza la benedizione delle piogge, non c’è raccolto, e senza raccolto, non c’è vita.

    Battere la ’aravà può simboleggiare il nostro bisogno di acqua, ma anche di misericordia divina. Secondo un famoso Midrash, la ’aravà rappresenta la bocca: strumento della preghiera, ma anche della colpa. Maldicenza, menzogna, superficialità del linguaggio. Chi di noi non è afflitto da tutto questo? Questo rito diventa così un atto di purificazione del linguaggio, una tefillah silenziosa, fatta di colpi anziché di parole. Secondo un’altra visione, vogliamo colpire simbolicamente le nostre inclinazioni, i nostri errori, ciò che di inutile e dannoso ci appesantisce. Rav Avraham Yitzḥak Ha-Kohen Kook z’’l, primo Rabbino Capo di Eretz Israel, diede una lettura commovente di questo rituale: vide nelle aravot l’essenza dell’ebreo semplice. Prive di sapore e profumo, rappresentano l’ebreo che non ha né Torah né buone azioni. Eppure, in questo giorno, diventano protagoniste. Rav Kook scrive: “Non colpiamo la ’aravà, ma colpiamo con la ’aravà”. È una visione rivoluzionaria: l’arma segreta del popolo ebraico non è solo lo studio o la pratica delle mitzwot, ma anche la fede semplice e autentica di chi prega con il cuore. Questa interpretazione restituisce dignità a ogni membro del popolo, e mostra come, in certe ore decisive, siano proprio i “piccoli” a portare la salvezza. A Hoshana Rabbà, l’aravà rimane sola, ma non per essere scartata: viene presa, onorata, e usata. È il messaggio profondo di questo giorno: ogni Ebreo è parte insostituibile del popolo. Non c’è benedizione senza unità. In questi tempi terribili è un messaggio molto significativo, che dobbiamo fare nostro.

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