
Ogni anno, alla vigilia di Yom Kippur, in molte comunità ebraiche – in particolare quelle ashkenazite – si rinnova il minhag delle kapparot: un pollo viene fatto roteare sopra la testa della persona che recita la formula rituale, per poi essere macellato “in espiazione”. Si tratta di un rito medievale, ricco di simbolismi, ma oggetto di critiche profonde da secoli, non solo in ambito laico.
Le kapparot non sono menzionate né nella Torah né nel Talmud. Un possibile antecedente è citato da Rashi (XI secolo) nel suo commento a Shabbat 81b: egli descrive un’usanza che prevedeva di agitare sopra la testa un vaso con semi per sette volte e poi gettarlo in un fiume prima di Rosh haShanà, come forma di espiazione. La cerimonia, accompagnata da una preghiera simile a quella oggi usata per le kapparot, mostra che in origine non venivano impiegati animali. I chachamim iniziarono a discutere l’uso dei polli nel IX secolo: l’associazione derivava dal fatto che il termine ebraico gever significa sia “uomo” sia “gallo”, cosicché la punizione destinata alla persona veniva simbolicamente trasferita all’animale.
Lo scrittore Shai Agnon, nel suo romanzo Sipur Pashut, illustra l’assurdità di questo minhag: il protagonista, Hershel, praticando le kapparot, impazzisce credendo di essere un gallo. Passiamo ora alle voci rabbiniche sulla questione.
Le riserve della tradizione rabbinica
Secondo l’Encyclopaedia Judaica (vol. 10, pp. 756–757), diversi importanti rabbini si opposero con forza al rito già nel Medioevo. Rabbi Shelomoh ben Aderet (Rashba, XIII sec.) lo considerava una superstizione pagana. La stessa opinione era condivisa da Ramban (Nahmanide) e da Rabbi Yosef Caro, grande codificatore della halakhah, che definì le kapparotuna “usanza stolta” (minhag shel shtut) da evitare.
Nel Shulchan Arukh (Orach Chayim 605:1) Rabbi Yosef Caro scrive infatti: “Yesh limnoa ha-minhag” – “Bisogna evitare questa usanza” – riconoscendovi un rischio di pratiche superstiziose (darkhei emori). La sua posizione si basa anche sul Shibolei ha-Leket, compilato nel XIII secolo dal rabbino italiano Tzadok ha-Rofeh. Solo la glossa posteriore del Rema (Rabbi Moshe Isserles, Polonia, XVI sec.) ne mantiene la liceità. Questo contrasto codificato alimentò posizioni contrapposte in epoche e aree diverse.
Il Ba‘al Shem Tov (XVIII sec.), fondatore del chassidismo, le praticava, e ancora oggi molte comunità chassidiche le osservano come tradizione. Alcuni ebrei vi vedono un modo per mantenere vivo il concetto di sacrificio, in attesa della ricostruzione del Tempio. Tuttavia anche in ambito ashkenazita moderno non sono mancate posizioni contrarie: Rabbi Joseph B. Soloveitchik, ad esempio, si espresse contro l’uso dei polli per le kapparot, come riportato da suo genero e allievo, Rabbi Aharon Lichtenstein (Mevakshei Panekha, p. 245).
Le voci italiane: dal Shibolei Ha-Leket a Pahad Yitzḥaq e Shadal
In Italia, il Shibolei Ha-Leket ebbe una certa influenza. Rabbi Yitzḥaq Lampronti (Ferrara, 1679–1756), nel suo monumentale Pahad Yitzḥaq, dedica un lemma a “Kapparot”, raccogliendo le posizioni critiche dei Rishonim, tra cui Rav Asher ben Yehiel (XIII–XIV sec.), e sottolineando come il rito fosse percepito da molti come estraneo allo spirito della Torah.
Nel XIX secolo Shmuel David Luzzatto (Shadal) collocò pratiche come le kapparot nella categoria delle emunot she-nithadshu – credenze introdotte e discutibili – riflettendo la sensibilità razionalista tipica dell’ebraismo italiano.
Il rispetto degli animali: una linea coerente
Alla base della critica moderna c’è il principio di tza‘ar ba‘alei ḥayyim – il divieto di infliggere sofferenze inutili agli animali – radicato nella Torah e nel Talmud e codificato nella halakhah. Applicato a un rito che provoca stress e dolore agli animali, questo principio diventa un argomento forte per ripensarne l’uso.
Rav Riccardo Di Segni, nel suo libro Noten Ta‘am la-Shevach (1998), ricorda che la macellazione rituale è strutturata per minimizzare la sofferenza. L’ebraismo, sottolinea, riconosce una responsabilità etica verso gli animali: da qui la coerenza nel preferire pratiche devozionali che non generino crudeltà, come sostituire le kapparot con denaro destinato alla tzedakà.
Rachel Nachmany Segal e Rav Sergio Sierra, in un articolo pubblicato nel 2004 sulla Rassegna Mensile di Israel, osservano che “la Torah, anche se non vieta l’uccisione degli animali, assume una linea abbastanza univoca contraria all’offesa verso di loro, richiede cura, compiendo giustizia nei loro riguardi e pietà per loro”.
Sul versante filosofico, Rav Avraham Yitzḥaq ha-Kohen Kook, in Ḥazon ha-Tzimḥonut ve-ha-Shalom, articola un ideale di compassione crescente verso gli animali: la carne è una concessione storica, mentre l’orizzonte etico è l’educazione alla misericordia e alla riduzione della violenza. Non si tratta di imporre il vegetarianismo, ma di ricordare che, quando un rito non obbligatorio produce sofferenza, l’alternativa più umana è da preferire.
Alternative
Molti rabbini contemporanei raccomandano una forma sostitutiva: usare denaro al posto dell’animale, roteandolo tre volte sopra la testa e poi devolvendolo in tzedakà. In questo modo si mantiene il significato simbolico, anzi lo si rafforza, evitando inutili crudeltà.
Nel XX secolo autorevoli maestri – tra cui Rav Yitzḥaq Kaduri e Rav Shlomo Zalman Auerbach – hanno invitato esplicitamente a sostituire i polli con denaro. In alcune città, come New York, si è persino verificato che la carne non fosse distribuita ai poveri ma gettata via, contravvenendo al principio di bal tashchit (non sprecare).
Conclusione
L’ebraismo insegna da sempre il rispetto degli animali: Moshe e David furono scelti come guide proprio per la loro compassione verso il bestiame (Shemot Rabbah 2:2; Midrash Tehillim 78). Rebecca fu scelta come sposa per Isacco grazie alla sua gentilezza verso i cammelli. Numerose mitzvot prescrivono che gli animali riposino di Shabbat e non siano sfruttati con crudeltà. Come recita il Salmo 145:9, “La misericordia di Dio è su tutte le Sue creature”.
Rabbi Samson Raphael Hirsch (XIX sec.) sintetizzò così questa visione: “La Torah ti obbliga non solo a non infliggere dolore inutile a un animale, ma anche ad aiutare e, quando puoi, ad alleviare la sua sofferenza ogni volta che vedi un animale sofferente”.
Alla luce di questi insegnamenti, l’autentica teshuvah nel periodo delle feste non si esprime con un rito che infligge dolore, ma con atti di compassione e di giustizia, in coerenza con lo spirito della Torah. In un’epoca in cui le kapparot si possono persino “fare online” e alla luce delle opinioni rabbiniche qui citate, l’uso dei polli per le kapparot va ripensato.