
Dopo tre mesi dall’uscita dall’Egitto il popolo ebraico si avviò finalmente a ricevere la Torà nei pressi del monte Sinài dopo un periodo di necessaria preparazione. La Torà afferma: Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro il Signore. Essi stettero in piedi sotto il monte (Es. 19, 17). Il Talmùd spiega che il popolo ebraico durante il dono della Torà non si trovava alle falde del monte, ma realmente sotto il monte: “Il Santo, Benedetto sia, capovolse la montagna sopra gli ebrei come una tinozza, e disse loro: Se accettate la Torah, bene, altrimenti, lì ci sarà la vostra sepoltura” (Shabbàt 88a).
Ha senso obbligare un popolo ad accettare il dono della Torà? È forse con una minaccia di morte o con la violenza che si può imprimere nel cuore di un ebreo un duraturo rapporto con gli insegnamenti divini?
I commentatori si sono lungamente soffermati sul senso di tale passo. Nella scuola di Reb Chaiìm di Wolozin si interpretavano le parole del Talmùd in modo simbolico. Tenere i piedi a terra e guardare verso l’alto vedendo solo la base di un monte che nasconde la vista del cielo significa vivere in un mondo avvolto di materialità che preclude un futuro fatto di sogni e di progetti che daranno la vita eterna ad Israele. Chi pensa di costruire un futuro ebraico privo di Torà, di studio e di osservanza non si rende conto che verrà sepolto prima o poi dalla terra della corporeità. Non si tratta dunque di una minaccia ciò che accadde sotto il monte Sinai, ma la reale visione di come l’allontanamento dal cielo potrà cancellare un giorno la vita ebraica di intere famiglie e intere Comunità. Come purtroppo è accaduto.
Nel mondo chassidico si forniva una diversa interpretazione. Rabbì Yosèf di Polna, a nome del Bà’al Shem Tov, affermava che ogni ebreo ha la forza di uscire da un duro momento della vita, anche se avvolto dall’oppressione e dall’abbattimento simboleggiati da un minaccioso monte riverso sul proprio capo e trasformare la propria vita in un tino contenente del vino per poter brindare alla gioia della ricostruzione. Anche questa è sempre stata la realtà di Israele, costantemente in grado di riedificare la propria identità spesso demolita dal dolore, grazie alla fede e all’azione, all’amicizia e alla preghiera. Legato anche a tali spiegazioni qui riportate vi è l’uso di addobbare case e Sinagoghe con fiori a Shavu’òt e di cibarsi con cibi di latte durante la festa.
I fiori a Shavu’òt
Secondo il Midrash (Vaikra’ Rabba’ 23,5) Israele è paragonato nel Cantico dei Cantici ad una rosa nel frutteto. Questo perché il padrone del mondo si pentì di aver creato l’Universo a causa del malevolo comportamento umano e decise di distruggerlo, ma si convinse a non farlo. La cosa è simile al padrone di un prato che notati i troppi roveti decise di eliminare il campo, ma quando si accorse della presenza di stupende rose, lo conservò. Così, grazie a Israele che ricevette la Torà e la amò, il mondo intero continua e continuerà ad esistere. Ma la spiegazione più nota dell’usanza in questione si trova nel Talmud (Shabbat 88b). Da un versetto del Cantico dei Cantici (5. 13) si ricava che quando fu data la Torà il mondo si riempì di soave profumo ad ogni comandamento che Dio pronunciava, pertanto il sei di Sivàn si addobba il Tempio con fiori profumati. Su quest’ultimo commento riportiamo il pensiero del Rabbino chassidico Shemuèl Borenshtein di Sochatchèv: “Il primo peccato fu commesso dall’essere umano usando solo quattro dei suoi cinque sensi. Eva udì il serpente, vide il frutto, lo toccò e lo mangiò. Il senso dell’olfatto, però, non fu usato per trasgredire all’ordine di Dio. Ogni Yehudì ha nella sua anima una parte pura e spesso nascosta che non potrà mai essere cancellata dalla quale partire per costruire la propria identità ebraica e per riuscire a ritrovare la giusta felicità anche dopo un forte momento di abbattimento.
I cibi di latte
Secondo rav Zilber il latte versato in bicchieri d’oro o di altro prezioso metallo diventa presto acido e pericoloso, mentre si mantiene sano se versato in modeste coppe. Non è la ricchezza che mantiene una forte identità ma la semplicità e l’allontanamento della ricerca materiale. Il calcolo numerico delle lettere che compongono la parola Chalàv – latte, è quaranta, come il numero dei giorni in cui Moshè rimase sul monte Sinài per poter portare la Torà al popolo. È la modestia simboleggiata dal latte che permette di vivere il vero senso della Torà. Secondo rav Mordekhài Elon il latte è la trasformazione del sangue mestruale femminile che diviene l’alimento basilare per la nostra crescita. Questa è la grandezza di Israele: saper trasformare anche il sangue in un momento di vita per saper crescere e mantenere per sempre la propria identità.
Israele, il popolo ebraico, avrà sempre la forza di trasformare la propria storia in una storia di vita.