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    Parashà di Emòr: L’arte di insegnare

    La parashà di Emòr inizia con le parole: “L’Eterno disse a Moshe: di’ (‘emòr)  ai kohanìm figli di Aharon e dirai (“amartà”) loro: [il kohen] non si potrà rendere impuro per nessuna persona [morta], se non per uno  parente stretto a lui vicino, per sua madre, per suo padre, per suo figlio, per sua figlia, per suo fratello. Potrà rendersi impuro per la sorella vergine non sposata a lui vicina” (Vaykrà, 21:1-3). 

                Il massimo di livello di impurità nella Torà è quello che si contrae venendo a contatto con un cadavere. Con questa parole la Torà fa sapere ai kohanìm che per via del loro ruolo nel Bet Ha-Mikdàsh, che richiede purità, possono seppellire solo i parenti stretti ma non altre persone. 

                R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) spiega che la parola “emòr” si riferisce alla fine della parashà precedente di Kedoshìm e insegna che i kohanìm devono essere esperti nelle regole di impurità e nelle differenze tra gli animali che sono kasher e quelli che non lo sono per insegnarle al popolo. La parola “amartà” è un’ammonizione ai kohanìm di separarsi dall’impurità dei morti e di non sposare donne a loro proibite per cui i loro figli non sarebbero più kohanìm.  

                R. Naftalì Tzvi Yehuda Berlin (Berlarus, 1816-1893, Polonia) nel suo commento Ha’amèk Davàr fa notare la scelta poco usuale delle parole nel primo versetto. Normalmente nella Torà è scritto “dabèr” (parla) e poi “amartà” (dirai), cioè prima il testo del passo e poi la spiegazione. In questo caso invece nella Torà è scritto “emòr” (di’) e “amartà” (dirai). Il significato è lo stesso, tuttavia per via della differenza di linguaggio i maestri spiegarono che le parole “emòr” e “amartà” vengono ad ammonire i kohanìm che ammoniscano i loro bambini. 

                R. Joseph Pacifici (Firenze, 1929-2021, Modiin Illìt) in Hearòt ve-He’aròt (p. 129) spiega che questa ammonizione consiste nel fatto che è proibito a un kohen rendere impuro il figlio anche se non ha raggiunto l’età delle mitzvòt. Questa è una regola generale nella Torà, per cui è proibito al padre dare da mangiare cibo non kasher al figlio minore. Inoltre i nostri maestri ci hanno insegnato che questa ripetizione “emòr” e “amartà” allude al fatto che mentre agli angeli è sufficiente dire una cosa una volta sola, per gli esseri umani, che hanno molte tribolazioni, è necessario ripetere la stessa cosa più volte. Bisogna quindi spiegare con pazienza fino a che il contenuto del discorso è stato capito.

                R. Pacifici, oltre a essere un talmìd chakhàm, fu un grande pedagogo e dedicò tutta la sua vita all’insegnamento. Insegnò in Inghilterra, in Italia alla Scuola Rabbinica di Torino, a Gibilterra, dove fu anche rabbino capo della comunità, e infine nello Stato d’Israele. In questo suo commento egli scrive che quando si insegna capita che qualcuno ponga una domanda e la risposta non venga capita. E spesso l’insegnante perde la pazienza. E invece bisogna sapere che quello che è chiaro a te può essere oscuro ad un’altro. Il compito di influire sugli altri è una grande arte. Così è stato creato il mondo con persone che influiscono sugli altri (“mashpia’ u-mekabel’). A una persona dotata di conoscenza della Torà e di timore del Cielo che non insegna a nessuno manca qualcosa. Questa funzione esiste sempre tra padre e figlio, rav e comunità, rosh yeshivà e italmidìm. Uno dei motivi per cui gran parte del popolo d’Israele si è separato dalla Torà è che non abbiamo trovato la strada per parlare con loro nel modo appropriato. E non c’è dubbio che se avessimo trovato la strada appropriata quasi tutti sarebbero ritornati. La mancanza è nostra. Così abbiamo visto con Moshè: quando parlò al faraone e il faraone non diede ascolto alle sue parole, Moshè disse “ecco io non sono capace di parlare” (“‘aràl sefatàim”). Egli sostenne che la mancanza era sua e non di altri.  Capita che alcuni insegnanti di yeshivà diano lezioni di alto livello che buona parte dei talmidìm non riesce a capire. Questo è un problema serio perché quest’ultimi si possono scoraggiare e smettere di studiare. Insegnare è un’arte.

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