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    Parashà di Vaykrà: Profezia e korbanòt

    L’ultima parashà del libro di Shemòt aveva descritto la costruzione del mishkàn, il tabernacolo mobile che accompagnò gli israeliti nel deserto per  trentotto anni. Ora la prima parashà del libro di Vaykrà inizia con la descrizione dei korbanòt, le offerte sacrificali da portare nel mishkàn.

    R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento al libro di Vaykrà(ed. Inglese, Feldheim, 2000, p. 5) fa notare che la parashà inizia con le seguenti parole: “Ed Egli chiamò Moshè e l’Eterno gli parlò dalla tenda di riunione (ohel mo’ed, la parte interna del  mishkan) dicendo…” (Vaykrà, 1:1).

    R. Hirsch spiega che dalla costruzione della frase nella Torà si impara che la chiamata dell’Eterno è strettamente connessa a quello che disse a Moshè. La Torà quindi confuta coloro che vorrebbero distorcere la rivelazione del Creatore a Moshè, come se fosse stata una rivelazione che scaturiva dal cuore di Moshè. Come se fosse paragonabile ad artificiali esperienze estatiche; come se le parole dell’Eterno fossero state l’ispirazione di uno spirito umano, come se la “religione ebraica” fosse un fenomeno come gli altri fenomeni religiosi che sono fasi nello sviluppo dello spirito umano. 

    R. Hirsch sottolinea che la profezia di Moshè era unica e che l’Eterno parlava a Moshè nel modo in cui una persona parla con un’altra persona (Shemòt, 33:11). Le parole da una persona all’altra derivano solo dalla mente di chi parla e non sono in alcun modo il prodotto dei pensieri di chi ascolta. Pertanto con le parole “Egli chiamò” la Torà vuole precludere l’idea che la parola dell’Eterno a Moshè fosse preceduta da qualche processo che aveva luogo all’interno del cervello di Moshè. Moshè non fece nulla per far sì che l’Eterno parlasse con lui, né aveva idea di cosa l’Eterno gli avrebbe detto.

    I maestri nel Midràsh Sifrà affermano che una caratteristica della profezia di Moshè era che la parola divina veniva sempre preceduta da una chiamata. Nella Torà questo fenomeno appare in modo esplicito solo in tre occasioni: quando l’Eterno parlò a Moshè per la prima volta al roveto ardente (Shemòt, 3:4); quando l’Eterno parlò a Moshè al monte Sinai (Shemòt, 19:3); e in questa parashà dalla tenda di riunione. In questo modo la Torà insegna che in ogni circostanza e in ogni luogo, sia da un roveto nel deserto, dal Monte Sinai alla presenza di tutto il popolo, o nella privacy della tenda di riunione, quando la parola dell’Eterno venne a Moshè fu preceduta da una chiamata.    

    R. Hirsch osserva anche che la traduzione “offerte” per descrivere i korbanòt non è precisa. R. Hirsch afferma che nelle lingue occidentali non abbiamo una parola che trasmetta il concetto del termine ebraico korbàn. La traduzione comunemente usata in tedesco “opfer” (in italiano “offerta”) deriva dal latino “offero” e non corrisponde a korbàn. E anche la parola “sacrificio”, che denota un atto di distruzione, ha una connotazione antitetica al concetto ebraico di korbàn.

    R. Hirsch spiega anche che il concetto di “offerta” non corrisponde a korbàn perché “offerta” implica una richiesta o un bisogno da parte di colui al quale viene fatta l’offerta. L’offerta viene fatta per soddisfare una richiesta o un bisogno. Il concetto di korbàn è del tutto diverso. Infatti nella Torà il termine “korbàn” viene usato unicamente nel contesto del rapporto tra l’uomo e il Creatore e può essere capito solo sulla base del significato della radice KRB. Il significato di questa radice è “avvicinamento”, un modo di arrivare a un rapporto più vicino con un’altra persona. Il korbàn serve quindi a venire incontro ai bisogno di chi lo porta e non di chi lor riceve. È quindi un modo per avvicinarsi al Creatore. 

                

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