
Nelle nostre sinagoghe, che siano italiane o sefardite, locali o libiche, è normale assistere a una scena molto frequente: durante la benedizione sacerdotale, letta dal chazàn o impartita dal kohèn, tante persone, che possono essere padri o madri di famiglia, rabbini, o persone di riconosciuta autorevolezza mettono una mano o entrambe le mani sulla testa di figli, discepoli, parenti, amici più giovani. La scena si ripete nelle sinagoghe anche fuori dal contesto della benedizione sacerdotale. Lo stesso avviene in molte case, dove il venerdì sera o all’inizio delle feste il padre benedice figli e figlie (su questo uso si veda l’importante studio di Chaya Fisherman Birkat habanim in Tallele Orot 8 5758-59). Saranno in molti a ricordare un gesto automatico di rav Toaff – erede della tradizione sefardita di Livorno -, quando al beth hakeneset gli veniva chiesta una berakhà: la mano destra andava a prendere la frangia destra del tallet con lo tzitzit, e contemporaneamente lo faceva a sinistra, e poneva le mani con gli tzitziot sul capo della persona.
Se però si va in una sinagoga ashkenazita, assistere a questa scena – la mano o le mani sulla testa – è molto più raro, e se qualcuno, come un visitatore, lo fa alle persone a lui care che gli stanno vicino è tollerato, ma visto con una certa diffidenza. Così come i turisti ashkenaziti che si affacciano nelle nostre sinagoghe guardano queste scene con un certo stupore.
Che cosa si nasconde dietro queste differenze? Una lunga e interessante storia simbolica.
Alle origini di questo gesto c’è un racconto biblico (Bereshit 48:14 ss.), quello della benedizione che il patriarca Ya’aqov dette ai figli di Yosef. Erano in due, e su ognuno posò una mano; Yosef dispose i suoi figli davanti al nonno in modo che la mano destra, che è quella considerata più importante, si posasse sul capo del primogenito; ma Ya’aqov incrociò le braccia mettendo la destra sul minore, suscitando la perplessità di Yosef. In ogni caso si vede che la benedizione veniva data mettendo la mano sulla testa. In altre occasioni ritorna questo gesto: nell’investitura dei leviti da parte degli israeliti (Bemidbar 8:10); nelle procedure sacrificali in cui l’offerente pone la mano o le mani sulla testa dell’animale; nel racconto del bestemmiatore in Waiqrà 24:14, in cui i testimoni gli mettono le mani in testa prima della lapidazione, che sembra una forma di scarico di colpa analoga a quella che si fa per il sacrificio. In Bemidbar 27:23 quando Moshè conferisce l’autorità al suo successore Yehoshua, è detto che “appoggiò le sue mani su di lui”; il midrash (Midrash aggadà in loco, citato anche da Rashì) commenta che l’ordine che aveva ricevuto (al v. 18) era di poggiare una sola mano, e Moshè volle metterle tutte e due con generosità, come è detto “il generoso benedirà” (Mishlè 22:9). Da questi esempi si vede che il gesto di poggiare la mano sul capo ha il significato di un trasferimento, che può essere di potere, di benedizione o di colpa, e che farlo con due mani lo rende più completo.
In epoca rabbinica l’investitura rabbinica era chiamata (e tuttora ha questo nome) semikhà, perché la parola indica il gesto che si faceva, quello di appoggiare le mani sulla testa.
Nel Talmud Babilonese (Shabbat 119 b) è detto che «chi prega la sera di shabbat e dice waikhulù (Bereshit 2:1-3), due angeli lo accompagnano e mettono le loro mani sul suo capo e dicono “Il tuo peccato è allontanato e la tua colpa espiata” (Isaia 6:7).
Nella benedizione sacerdotale il kohèn deve alzare le braccia all’altezza del capo con le dita estese, unite in modo particolare e con i palmi verso il basso; il gesto è chiamato nesiat kappaim (sollevamento dei palmi) e dà il nome a tutto il rito della benedizione. Quindi i kohanim non mettono le mani direttamente sul capo della gente, né potrebbero farlo singolarmente visto che possono benedire solo se c’è un miniàn, almeno dieci adulti; è il pubblico che, almeno in alcune tradizioni, durante la recitazione tiene le mani sulla testa dei suoi cari. Ma perché qualcuno lo fa e altri no?
Un problema di fondo sembra essere quello della esclusività della benedizione sacerdotale prescritta in Bemidbar 6:23. Solo loro, i sacerdoti, hanno questo obbligo e solo loro possono farlo. In base a questo, per alcuni Maestri la recitazione della formula, imponendo le mani sulla testa, rappresenta un’appropriazione illecita di un ruolo esclusivo. L’autorità più citata in proposito è il Gaon di Vilna, la cui opinione è riportata nella Torà Temimà (di rabbì Baruch Epstein, pubblicata nel 1902; Bemidbar 6 n. 131); il Gaon, nel 1794, al matrimonio del quindicenne rav Yechezqel Landa lo benedì con una sola mano, appunto per rispettare le prerogative dei sacerdoti, che usano entrambe le mani quando benedicono; anche se le mani dei sacerdoti non toccano i capi delle persone, l’uso di entrambe le mani può essere una imitazione. Di qui una generale riluttanza a questa forma di gestualità nel modo ashkenazita, o almeno all’uso di due mani. Altri invece ritengono che quello che la norma prescrive è per i sacerdoti il divieto di recitare la formula con relativa benedizione introduttiva fuori dal contesto sinagogale e dal momento della preghiera, e per i non sacerdoti il divieto di recitare la formula con la benedizione introduttiva (v. Mishnà Berurà 128:3). Altrimenti, se non dice asher qiddeshanu ecc. non c’è alcun divieto, anzi, è opportuno usare questa formula; per la gestualità però le opinioni sono un po’ più articolate, ed è interessante notare che su questa questione sono le fonti rabbiniche italiane a segnare la linea.
La prima fonte da considerare è quella di Aharòn Berekhyà di Modena (1549-1639), autore di un testo molto importante dedicato ai riti funebri, il Ma’avàr Yabboq (1626). Introducendo l’uso di recitare alcuni versetti sulla tomba, il rav riferisce l’uso di benedire i figli piccoli con la mano in testa (apparentemente una sola) la sera di shabbat e spiega che nelle dita della mano vi sono 15 articolazioni (3 per dito, anche per il pollice: e direi che ha ragione perché quello che è chiamato “primo metacarpo” in realtà è una falange prossimale modificata), come 15 sono le parole della formula sacerdotale. La benedizione è più efficace di shabbat, spiega Modena, perché in quel giorno il Satàn, “l’accusatore” non ha la forza di attaccare. Secondo Modena la mano evoca la benedizione sacerdotale, e a questa bisogna pensare, ma la formula che propone di recitare deriva dal versetto di Isaia 11:2: “si poserà su di te uno spirito di sapienza e intelligenza, uno spirito di consiglio e forza, uno spirito di conoscenza e timor di Dio”.
Qua si parla di una mano sola, ma molto importante è la testimonianza del rabbino ferrarese Yitzchaq Lampronti (1679-1756), in una voce della sua enciclopedia Pachad Itzchaq (lettera bet, p. 54 b della prima edizione, col. 1) [in parentesi quadra le spiegazioni]:
«Ho visto persone che stanno attente a non benedire i loro allievi con due mani e dicono che fanno così per non legare il chesed con il din [sono due espressioni cabaliste, il chesed è l’attributo divino dell’amore e della passione, il din quello della giustizia e della severità]. Ma io uso benedire chi è sposato con due mani, una per lui e una per la moglie e i celibi con una mano sola; tuttavia per i ragazzi che studiano Torà anche per loro lo faccio con due mani, perché la Torà è un sostegno al posto della moglie; così ho trovato e trovo che sia un buon uso che i rabbini benedicano la comunità, e i padri i figli, con due mani; se vuoi è perché il versetto dice: “E Aharon sollevò le braccia verso il popolo e li benedì” (Waiqrà 9:22); e se vuoi per un motivo logico, affinché la destra [la mano destra, simbolo del chesed] si integri con la sinistra [la mano sinistra simbolo del din], come hanno scritto i cabalisti e in particolare l’autore del Reshit Chokhmà ֲֲ[rav Elihau de Vidas, 1518-1592, allievo di Moshè Cordovero] (in Sha’ar haIrà, cap. 4 p. 23-24) appoggiandosi su quanto è scritto nello Zohar (Waerà) a proposito del versetto “saprai oggi e tornerai al tuo cuore” (Devarim 4:39) [dove “cuore” è scritto levavcon due beth, invece di lev, e questo è come se vi fossero due cuori, due istinti, quello di fare il bene e quello di fare il male]: “disse ancora rabbì Eleazar: i colpevoli fanno danni in alto, e quale è il danno? Che la sinistra non è compresa nella destra, che l’istinto a fare il male non è compreso [dominato, controllato] dall’istinto a fare il bene e questo danno arriva in alto [nei mondi superiori] e impedisce di sottomettere la forza del din”. Dunque si spiega che è bene e opportuno benedire con due mani per sottomettere il din ».
Il ragionamento cabalistico proposto da rav Lampronti si basa su due principi: che le forze del male vanno dominate integrandole e non separandole, altrimenti sono libere di agire senza controllo, e che ogni gestualità umana influenza i mondi superiori. Per questo motivo bisogna usare entrambe le mani e non una sola. Le parole di Lampronti testimoniano la coesistenza di due usi, quello di una sola mano benedicente e quello di entrambe le mani; Lampronti li segue entrambi, ma preferisce il secondo uso, appoggiandosi su una spiegazione cabalista; ed è logico supporre che una spiegazione di questo tipo venga a rafforzare, piuttosto che fondare ex novo, un uso già consolidato.
L’uso delle due mani non era solo italiano. Un importante contemporaneo di Lampronti, rav Ya’aqov Emden (Germania, 1698-1776) riferisce che il padre, il Chakham Tzevi (1657-1718) usava benedire con due mani e che si appoggiava a motivazioni varie, anche mistiche. Lo spiega brevemente in uno dei suoi responsi (Sheilat Ya’avetz 2:125) e estesamente nel suo Siddur Bet Ya’aqov (Lemberg 1776, hanhagot lel shabbat parag. 7, p. 153); parlando della benedizione che si dà ai figli la sera del venerdi al rientro a casa, dice che la si fa con due mani
«come fanno tutti coloro che benedicono con “buon occhio” [generosità], come fece Moshè [nel brano sopra citato di Bemidbar 27:23] e come fanno i sacerdoti, e come abbiamo trovato che gli angeli lo fanno la sera di shabbat [la fonte è quella sopra citata di Shabbat 119 b] » .
Rav Emden spiega poi come una eccezione è il caso della benedizione di Ya’aqov ai figli di Yosef fatta a ciascuno con una mano sola. Conferma che suo padre usava due mani e
«non come i deficienti (chaserè da’at) che pensano che bisogna fare attenzione a farlo con una sola mano».
Rabbì Chaym Palagi (Smirne1788–1868) cita questa notizia insieme all’opinione contraria (una mano sola, la destra) a nome del libro Chemdat Yamim, preferendo la prima opzione ma non scartando la seconda. Rav Ovadia Yosef era solito benedire con la sola destra ma in occasioni particolari usava entrambe le mani (cit. in Halakha Yomit 28 agosto 2022).
Gli Yemeniti non usano le mani per benedire e rav Arussi sconsiglia di introdurre l’uso nelle loro sinagoghe.
Riassumendo, si tratta di una questione controversa, ma l’uso delle nostre comunità ha radici antiche e fondate, e va mantenuto con attenzione.