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    ISRAELE

    Abbiamo visto chi siamo davvero

    Il 6 ottobre 2023 ci sembrava tutto difficile. Il traffico, la politica, le divisioni, i prezzi. Il giorno dopo, tutto è cambiato. E con quel cambiamento, siamo cambiati anche noi. Non so se saremo mai più come prima. Forse nemmeno vogliamo esserlo.
    Sono passati due anni, e ancora oggi ci svegliamo ogni mattina con una domanda che non ha risposta chiara: quando finirà? Ma nel frattempo, in questo tempo sospeso, qualcosa di profondo è avvenuto dentro la società israeliana.
    Abbiamo guardato il peggio — e il meglio — di noi. E forse, proprio lì, abbiamo riscoperto chi siamo davvero.
    Abbiamo visto giovani interrompere tutto per tornare a difendere il Paese. Li abbiamo visti rimanere mesi al fronte, tornare qualche giorno, poi ripartire. Abbiamo ascoltato genitori parlare con voce tremante ma fiera. Abbiamo visto il volontariato esplodere nei parcheggi, nei kibbutz evacuati, nei magazzini di raccolta. Nessuno aspettava che fosse “compito dello Stato”. Ognuno ha capito, senza che glielo dicessero, che era anche compito suo.
    C’è una nuova maturità, una nuova gravità negli occhi delle persone.
    Non parlo solo di lutto o di rabbia. Parlo di uno sguardo diverso sul futuro. Come se non ci permettessimo più di dare nulla per scontato. Come se all’improvviso, anche chi si sentiva distante da tutto questo, avesse compreso che è coinvolto, che non si può restare a guardare.
    Le famiglie degli ostaggi ci hanno insegnato cosa vuol dire resistere.
    Non solo alla paura, al dolore, alla disperazione. Ma resistere alla tentazione di dimenticare.
    Abbiamo visto una generazione giovane caricarsi il peso del Paese sulle spalle. Studenti, lavoratori, genitori giovani, riservisti — diventati, loro malgrado, il muro di protezione dell’intera società. La guerra li ha trovati e li ha trasformati. E a noi ha lasciato una domanda: sapremo meritare quello che hanno dato?
    Nel frattempo, fuori dai confini di Israele, l’antisemitismo è tornato con una violenza che pochi si aspettavano. Mentre noi cercavamo empatia, arrivavano accuse. Mentre seppelliamo i morti, ci urlano slogan. È stato uno shock per molti. Spero anche una sveglia.
    Eppure, nonostante tutto, nonostante il buio, qui in Israele continua a crescere qualcosa. Una forma nuova di speranza. Non è più quella ingenua, fatta di illusioni. È una speranza concreta, fragile ma forte. La speranza che i nostri figli possano vivere in un Paese che li protegga. Che non li abbandoni. Che non dimentichi.
    Ma la domanda vera, forse, è un’altra: chi vogliamo essere da ora in poi? Perché se è vero che il 7 ottobre ci ha spogliati di ogni certezza, è altrettanto vero che ci ha messo davanti a uno specchio. Ci ha chiesto — e continua a chiederci — se siamo capaci di costruire qualcosa di più solido, più unito, più giusto. Non solo per noi, ma per chi verrà dopo.
    In questi due anni, le conversazioni sono cambiate. Nei bar, nelle università, nelle chat di quartiere. Si parla di sicurezza, sì, ma anche di identità, di scopo, di cosa significhi oggi essere israeliani. Non esistono più margini per il cinismo facile. Persino chi era disilluso ora partecipa. Forse perché la realtà ci ha mostrato che non possiamo permetterci di stare fermi.
    E proprio in mezzo a tutto questo, si sente una fame nuova di futuro. Non una speranza ingenua, ma il bisogno profondo di sapere che c’è un senso. Che questo dolore non sarà vano. Che da queste rovine nascerà qualcosa di diverso. Qualcosa che non rinneghi ciò che siamo, ma che ci porti un passo avanti.
    Perché se c’è una cosa che abbiamo imparato, è che non siamo solo una nazione che resiste: siamo una nazione che si rialza. E anche se camminiamo feriti, stanchi, a volte disillusi — camminiamo insieme.
    E allora, mentre il mondo continua a guardare Israele con occhi spesso distorti, noi continuiamo a guardarci negli occhi, tra di noi. È lì che ritroviamo la forza. Nella madre che abbraccia un figlio in divisa, nell’insegnante che apre la giornata con una sirena d’allarme, nel ragazzino che impara presto a distinguere il suono di un razzo da quello di un aereo.
    Non sappiamo quanto durerà. Ma sappiamo che ogni giorno che passa, ogni gesto di solidarietà, ogni voce che non si spegne — sono già una forma di vittoria.
    Due anni dopo, non siamo gli stessi. Siamo feriti, ma siamo più forti.

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