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    Cinque cose da sapere sull’ondata terrorista in Israele

    1. Niente più stragi, per il momento

     

    L’attacco terrorista è iniziato due settimane fa con alcuni attentati omicidi: A Beer Sheva, a Hedera, a Bnei Berak, a Tel Aviv. Ha preso di sorpresa gli apparati di sicurezza, che inizialmente non sono riusciti a bloccare gli assassini. Poi però le forze dell’ordine hanno ritrovato la loro tradizionale capacità di prevenzione del terrorismo, e negli ultimi giorni i palestinisti non sono più riusciti ad assassinare altri israeliani. Non perché non ci abbiano provato, ma perché sono stati prevenuti con operazioni nei santuari del palestinismo, come il campo profughi di Jenin. E perché vi è stato un massiccio schieramento della sicurezza nei luoghi più sensibili, come la città vecchia di Gerusalemme, dove per esempio un tentativo di attacco omicida nei confronti dei fedeli che tornavano a casa dal Kotel attraverso il quartiere arabo (la via più rapida per arrivare a diverrsi quartieri storici dei charedim) è stato bloccato dall’intervento della polizia. Altri attentati falliti si sono avuti altrove, per esempio a Haifa. Si può solo sperare che la prevenzione e la reazione rapida delle forze dell’ordine continuino a evitare gli omicidi.

     

    2. La mobilitazione sul Monte del Tempio

     

    Forse per compensare il fallimento di questi attacchi, ma certamente per amplificare l’ondata terrorista, i palestinisti sono ricorsi a una vecchia parola d’ordine: “la moschea di Al Aqsa è in pericolo”. Ad essa segue sempre il tentativo di provocare disordini con la polizia sulla spianata del Monte. Il pericolo, questa volta, non sarebbe una manovra ingegneristica israeliana per far crollare la moschea, come altre volte i palestinisti hanno sostenuto, ma la sua dissacrazione attraverso il sacrificio pasquale che “gli ebrei” progetterebbero. In realtà la quasi totalità dei rabbini ritiene ancora oggi improponibile il rinnovamento dell’antico sacrificio di un agnello per Pesach, che era prescritto fino a che esisteva il Tempio e poi fu proibito, perché non esisteva più il luogo consacrato dove farlo e non era possibile ottenere il grado di purità rituale necessario. Solo qualche piccolo gruppo contraddice questa normativa e prova a compiere il sacrificio o vi si prepara. Ma la polizia impedisce tutti questi tentativi. Vi sono alcune centinaia di ebrei che salgono sul Monte, e magari mormorano qualche preghiera, dato che farlo in maniera aperta è ancora proibito dalla polizia. Ma non si vede in che cosa tutto ciò turbi la sacralità del luogo. Chi lo fa, eventualmente, sono i ragazzi arabi che non nascondono di giocare a calcio sulla spianata e perfino all’interno della moschea, come molte foto e  filmati documentano. E ancor di più quelli che accumulano nella moschea pietre per lanciarle sulla polizia e sugli ebrei che pregano al Kotel, come di nuovo è facile vedere dalle immagini.

     

    3. Gli scontri

     

    Gli ebrei che sono saliti al Monte, lo mostrano ancora le immagini, erano pacifici, disarmati, per nulla aggressivi, scortati e sorvegliati dalla polizia. Esercitavano un diritto che è garantito a tutti dalle leggi. Ma i media arabi hanno definito la visita, breve e innocua, un “assalto”. Contro di loro hanno eretto barricate di pietra, li hanno bersagliati di slogan ingiuriosi e soprattutto di grossi sassi. Prima e dopo la loro visita, la sassaiola si è rivolta contro le forze dell’ordine. La quale ha reagito, arrestando molte decine di violenti. L’ha fatto però con grande efficacia, tanto da non permettere che negli scontri fossero coinvolti le decine di migliaia di fedeli convenuti per le preghiere del Ramadan.

     

    4. Le conseguenze internazionali

     

    Gli scontri erano chiaramente preparati, come mostra la quantità di pietre accumulate nella moschee in previsione della “battaglia”, l’uso degli altoparlanti per incitare alla guerriglia urbana, gli appelli della stampa e delle forze politiche palestiniste. La buglia propagandistica dell’”assalto dei coloni alla moschea” è stata raccolta però solo dai media di Hamas e Fatah e dai loro alleati storici (almeno a parole) come Turchia, Iran e Giordania. Se la speranza era quella di rinnovare l’odio contro Israele nelle masse dei paesi arabi che ormai si stanno abituando alla normalizzazione dei rapporti, ciò è certamente fallito. Bisogna solo sperare che le provocazioni non si accentuino, in particolare nei prossimi giorni quando ancora si sovrapporranno la festività ebraica di Pesach e il Ramadan.

     

    5. L’impatto sula politica israeliana

     

    Il carattere organizzato e di massa di questi ultimi attacchi e l’appoggio dimostrato dalle organizzazioni palestiniste (non solo Hamas, anche Fatah, presieduta da Abbas, nonostante la condanna solo verbale e diretta al pubblico occidentale degli omicidi) mostrano il fallimento delle aperture tentate dal governo Bennett, su pressione dell’amministrazione americana. La lista araba unita, di matrice islamista, che siede al governo ed è determinante per la sua sopravvivenza, ha annunciato la propria autosospensione dalla maggioranza. Si tratta di una mossa a tempo e dunque solo propagandistica, dato che il Parlamento israeliano è chiuso per le vacanze pasquali. Ma essa mostra come le crepe della coalizione si stiano allargando: non è possibile tenere assieme ancora a lungo chi appoggia i manifestanti violenti e chi difende la polizia e lo stato di diritto. Questo è però un problema che maturerà nelle prossime settimane e mesi. Per ora è importante che l’ondata terrorista si spenga.

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