
Mi sono svegliato stamattina con un impulso che non riuscivo a ignorare: scrivere. Buttare giù, di getto, questi giorni che stiamo vivendo sotto le bombe, da ormai dieci lunghissimi giorni. Non per farne cronaca, ma per lasciare una traccia, un frammento di memoria viva.
Ricordo con chiarezza il primo giorno. L’attacco israeliano, dicono i commentatori, è stato il più vasto mai visto. Un’operazione preparata da anni: migliaia di soldati, agenti sotto copertura, commandi d’élite da cielo e da terra. Un attacco colossale. Alcuni lo definiscono la risposta definitiva, altro che le incursioni di Hezbollah e l’affare dei Beep: questo è un altro livello.
L’Iran ha risposto subito, con un lancio massiccio di missili, compreso quello di stamattina, che sembrava più un atto d’istinto che una strategia. Il cielo era teso e silenzioso. Nessun allarme, ma nessuno usciva. Le strade vuote fin dal mattino. Lì ho capito: gli israeliani sentono l’arrivo della guerra prima ancora che si manifesti. Un istinto, un’abitudine dura a morire.
Siamo arrivati a Tel Aviv all’alba, di giovedì. Il portinaio ci aveva detto con un sorriso stanco: “C’è qualcosa nell’aria. Si sente da una settimana”. E più tardi, un tassista, quasi parlando tra sé, aveva aggiunto: “Quando Waze si blocca, è perché si prepara qualcosa”. Non ci avevamo fatto caso, allora. Solo più tardi, dopo le sirene, abbiamo collegato i pezzi.
Dal secondo giorno, Israele ha virato nella modalità d’emergenza totale: niente scuole, niente eventi, niente lavoro. Solo i servizi essenziali. La notte è il momento preferito dai nemici per attaccare: vogliono stancarci, svegliarci mille volte. Ma anche di giorno non ci danno tregua.
Il tempo si confonde. Le ore si allungano, i pasti si dimenticano, le preghiere saltano. Prepariamo da mangiare solo quando ci ricordiamo. Siamo un po’ frastornati, ma poi ci riprendiamo, come sempre.
Ogni sera, prima di andare a letto, mettiamo alla porta vestiti, scarpe, zaino con un cambio, acqua, qualche biscotto. Quando suona l’allarme, ci vestiamo in un minuto, prendiamo cellulare, documenti, chiavi e via, giù per 13 piani a piedi, lungo le scale in cemento armato. Gli ascensori restano per gli anziani e per chi è in sedia a rotelle.
Incontriamo i vicini nella discesa. Un cenno con la testa, un “Bokertov”, e a volte, chissà perché, ci scappa anche una risata. Quando il secondo allarme arriva, ci affrettiamo ad entrare nel rifugio. Troviamo il nostro angolo, le solite tre sedie, come se fossero nostre da sempre. Tutti si mettono nei posti abituali, come in un autobus durante una gita scolastica.
Chi ha un cane, piccolo o grande, lo tiene vicino. I bambini si sistemano sui materassini con pupazzi e giocattoli. I genitori fanno del loro meglio per intrattenerli. E poi c’è Dan, il nostro custode. Sempre pronto con una parola affettuosa, uno scherzo, un sorriso. Ci chiama “i gloriosi italiani” mentre ci scatta qualche foto, per sdrammatizzare.
Conosciamo ormai ogni famiglia del condominio. Quando suona il terzo allarme, combinato con le sirene della città, chiudiamo le porte blindate. A volte sentiamo i boati, i colpi sordi dei missili intercettati dall’Iron Dome. A volte, niente: il silenzio, perché l’impatto è lontano.
Tutti con gli occhi fissi sul cellulare. La app ci dice dove sono caduti i missili, quanto dobbiamo restare nel rifugio. Nessun panico, solo stanchezza composta. Ormai sono quasi due anni che vanno avanti così. Eppure restano saldi. Resilienti. “Einbrera”, dicono. Non c’è alternativa. È una guerra per la sopravvivenza.
Quando arriva il segnale di fine allarme, la gente si alza, si saluta con un “Laila tov” o “Bokertov ve shaket”, a seconda dell’ora. Si torna a casa, ordinati, dando la precedenza ai più fragili.
24 giugno 2025, ore 5:43
Ci ha svegliati un altro allarme. Erano le 5.15. Scesi nel rifugio, abbiamo letto insieme i tweet di Trump: “Cessate il fuoco tra sei ore”. Ma l’ora nel rifugio è stata la più lunga. Ci giunge notizia che un missile ha colpito un intero palazzo a Beer Sheva. Tanti morti. Un ragazzo di 18 anni.
La radio trasmetteva le parole del cronista con voce rotta. Quando ha detto “יהיזכרוברוך” (che la sua memoria sia benedetta), è stato impossibile trattenere le lacrime.
Appena tornati a casa, un altro allarme. Di nuovo giù. A quel punto ci siamo detti: “Tanto vale restare qui fino al cessate il fuoco”. Perché di certo i missili continueranno fino all’ultimo minuto.
Nel rifugio, la tensione è palpabile, ma c’è anche speranza. Qualcuno mormora: “She lo nitpageshpo od” – speriamo di non rivederci più qui sotto.
Un commentatore su i24 dice una cosa che mi rimane impressa:
“I nemici pensano che basti svegliarci mille volte per distruggerci. Non hanno capito che Israele non dorme più dal 7 ottobre. E non dormirà finché giustizia non sarà fatta. Il fuoco arde ancora. Una torcia che nessuno potrà spegnere.”
Am Israel Chai – Il popolo d’Israele vive.