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    ISRAELE

    Il dissenso con gli Usa e i suoi riflessi politici

    La difficile unità
    Quando c’è una guerra dura e difficile come quella che Israele è stato costretto ad affrontare a causa dello spaventoso attacco di Hamas e degli assalti minori ma comunque consistenti provenienti da Libano, Siria, Territori dell’Autorità Palestinese, Yemen, si vorrebbe sempre la massima unità delle forze politiche interne e anche una condivisione degli obiettivi da parte degli alleati. In realtà questa concordia è rara, perché le scelte sono difficili e dolorose e purtroppo le cose non vanno esattamente in questa maniera neppure oggi in Israele. Da un lato le opinioni politiche all’interno del paese erano divise come non mai prima del 7 ottobre e tutti sanno che alla fine della guerra il conflitto si ripresenterà forse anche più aspro. E gli Usa, principale alleato di Israele, hanno fatto molto in questi mesi per aiutare lo Stato ebraico, ma non condividono le scelte strategiche del suo governo.

    Le richieste americane
    Cominciamo da qui: la stampa israeliana dice che i segnali di tensione tra Stati Uniti e Israele continuano a crescere, con indiscrezioni che suggeriscono che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden sta “esaurendo” la pazienza con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. I due, a quanto pare, non si parlano da parecchio tempo. Ci sono stati ostentati contatti del Segretario di Stato Blinken con avversari interni del governo (Lapid) e con stati che ostentano inimicizia con Israele come la Turchia. I punti principali di dissenso sono questi: gli Usa vogliono che Israele ridimensioni le operazioni di guerra a Gaza molto più velocemente di quel che sta accadendo. Vogliono molti più rifornimenti per Gaza, esigono una tabella di marcia precisa della de-escalation, lavorano perché ci sia uno scambio fra liberazione dei rapiti e cessate il fuoco, che non va avanti soprattutto per il rifiuto di Hamas. Non credono che Israele possa concludere la guerra distruggendo completamente Hamas e ottenendo per questa via la liberazione dei rapiti. Vogliono che Israele prenda impegni per far amministrare Gaza all’Autorità Palestinese “riformata” (non si capisce da chi e in che modo). Non vogliono l’intensificazione della guerra al nord, che sarebbe necessaria per allontanare il pericolo di Hezbollah, potenzialmente assai più grave di quello di Hamas. Vogliono che Israele dia all’Autorità Palestinese tutti i fondi previsti, anche se essa poi li gira a Hamas o li destina agli stipendi per i terroristi incarcerati o alle famiglie di quelli uccisi in azioni di terrorismo. Vogliono che il conflitto si risolva in fretta, secondo i tempi delle elezioni americane.

    La posizione di Netanyahu
    Netanyahu ha rifiutato questi termini. Ha detto che la guerra sarà lunga, forse anche fino al 2025, che si concluderà solo con la distruzione di Hamas, che gli ostaggi saranno liberati aumentando la pressione sui terroristi, che il dopoguerra si deciderà alla fine ma senza la partecipazione dell’Autorità Palestinese al governo di Gaza, che, se le azioni diplomatiche non obbligheranno Hezbollah a ritirare le sue truppe alla distanza stabilita dalla risoluzione Onu, bisognerà provvedere con la forza. Alcune di queste sue dichiarazioni sono state fatte proprie dal ministro della Difesa Gallant, dal Capo di Stato Maggiore Halevi, dal ministro di Gabinetto Gantz.

    Le dichiarazioni di Eisenkot
    Ieri però è uscito un discorso molto polemico del vice di Gantz, l’ex capo di stato maggiore e ora ministro Gadi Eisenkot, che sulla linea americana ha chiesto nuove elezioni per rinnovare la leadership (cioè defenestrare Netanyahu), ha negato che una operazione simile a Entebbe per salvare gli ostaggi a Gaza possa avvenire, ha aggiunto che “chiunque parli di sconfitta assoluta [di Hamas] non sta dicendo la verità [… perché] oggi, la situazione nella Striscia di Gaza è tale che gli obiettivi della guerra non sono ancora stati raggiunti”. Eisenkot ha detto infine che l’11 ottobre Israele era sul punto di colpire Hezbollah, ma lui e Gantz sono riusciti a convincere il Gabinetto di guerra a desistere. “Avremmo portato in guerra l’intero asse di Siria, Iraq, Iran e la guerra con Hamas, che ci ha causato i maggiori danni dall’istituzione dello stato, sarebbe diventata un’arena secondaria”. Un errore, ha lasciato intendere, che non andrebbe fatto neanche ora. È un dissenso molto radicale, che potrebbe preludere a un’ uscita dal governo, dove però forse potrebbe entrare Lieberman, che chiede invece una guerra più dura. La politica israeliana non cessa di riservare sorprese.

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