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    ISRAELE

    Gli Usa abbandonano Israele all’Onu

    Il voto del Consiglio di Sicurezza
    Israele è solo. Il suo principale e per certi versi unico alleato, l’America, gli ha voltato le spalle, permettendo ieri con la sua astensione il passaggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di una mozione promossa dall’Algeria e sostenuta da Russia e Cina (ma votata da tutti i membri del consiglio anche gli europei che si proclamano “amici di Israele”, come Gran Bretagna e Francia) che prescrive una tregua prolungata nella guerra di Gaza, in preparazione di un cessate il fuoco totale, chiedendo poi in termini ambigui che gli “ostaggi” siano rilasciati, ma anche che “tutte le parti”, cioè allo stesso titolo Israele e Hamas, trattino i loro “prigionieri” secondo la legge internazionale. Nella mozione non sono mai nominati né il 7 ottobre né Hamas. Si tratta di una risoluzione che per il momento non ha conseguenze pratiche, ma che autorizza implicitamente l’emarginazione di Israele e potrebbe preludere a provvedimenti più concreti. È chiaro che una tregua non legata alla liberazione degli ostaggi ha l’intento di preservare le truppe e la dirigenza di Hamas, consentendogli di conservare in prospettiva il controllo di Gaza e dunque rendendo inutili questi mesi di guerra: in sostanza la sconfitta di Israele. Sia Hamas sia l’Autorità Palestinese sia la Russia l’hanno salutata come una vittoria.

    Un caso già accaduto
    Non è la prima volta che Israele si ritrova da solo in guerra. Lo fu per la maggior parte della guerra di indipendenza; nel 1967 e nel 1973 la sua avanzata verso Il Cairo e Damasco che poteva costringere gli stati arabi a terminare per sempre le aggressioni fu bloccata proprio dagli americani, che si erano schierati contro Israele nel ’56. Molte delle operazioni a Gaza degli ultimi vent’anni sono state bloccate prima della conclusione militare dall’intimazione americana. Fa parte della tradizione politica Usa la decisione di impedire a Israele di “vincere troppo”. La solitudine di Israele e la scelta americana di non sostenerlo, anzi di favorire i suoi nemici (peraltro anche nemici dell’Occidente e degli Usa) furono uno dei tratti caratteristici della presidenza Obama, quando Biden era vicepresidente e Netanyahu già Primo Ministro. Anche allora il segno palese della scelta americana fu la votazione di una risoluzione contro Israele nel consiglio di sicurezza dell’Onu, fatta alla fine del mandato, in un momento ancora più tardo di adesso, quando già Trump aveva battuto la Clinton. Del resto gli uomini chiave di Biden vengono da quella di Obama e fanno il possibile per continuarne le politiche.

    I segnali
    La votazione all’Onu era stata preceduta da segnali politici sempre più duri da parte americana: prima l’intervista del leader democratico del Senato Chuck Shumer, che aveva chiesto nuove elezioni in Israele per cacciare Netanyahu – un’interferenza inaccettabile e senza precedenti nelle scelte politiche di un Paese democratico amico. Poi la vicepresidente Kamala Harris aveva fatto sapere che se Israele persisteva a voler sconfiggere Hamas entrando a Rafah “ci sarebbero state conseguenze”. Il segretario di stato Blinken era venuto di nuovo nei giorni scorsi in Israele per “sconsigliare” un’operazione a Rafah per liberare gli ostaggi e sbandare i battaglioni residui di Hamas. Ma si sa, gli ebrei sono un popolo “dalla dura cervice” e istruiti dalla storia a difendersi se vogliono sopravvivere; sicché si ostinano a fare le scelte per garantire la continuità del loro stato e non quelle opportune per far rieleggere agli americani Biden.

    Hamas blocca la trattativa
    La prima conseguenza del distacco americano da Israele è l’irrigidimento di Hamas, che ha annunciato subito di rifiutare la proposta di mediazione (ironicamente scritta dagli americani) che Israele aveva accettato per la liberazione di un certo numero di rapiti in cambio di sei settimane di tregua e di un numero dieci volte superiore di terroristi incarcerati, compresi molti assassini. Hamas ora pretende di nuovo la fine della guerra e l’uscita dell’esercito come premessa allo scambio. Nel frattempo è uscito dal negoziato.

    Che cosa accadrà ora
    Netanyahu, come aveva preannunciato, ha ordinato il ritiro della delegazione israeliana che era andata a Washington per discutere di soluzioni alternative e “umanitarie” al problema di Rafah. È probabile che a questo punto l’esercito israeliano proceda con l’operazione programmata a Rafah e già la scorsa notte vi sono stati alcuni bombardamenti che potrebbero esserne preludio. L’amministrazione ha parlato spesso di “conseguenze” di una scelta del genere, senza specificare quali. C’è stato già il voto dell’Onu che toglie la copertura diplomatica a Israele, ora potrebbero essere tagliate le forniture militari e in particolare i rifornimenti e i pezzi di ricambio, come hanno fatto diversi altri stati occidentali. Israele lavora già da tempo per diversificare queste forniture. In generale i rapporti peggioreranno. Ma Biden, che si preoccupa soprattutto della sua rielezione, non può prendere una posizione duramente anti-israeliana senza perdere non solo parte dell’elettorato ebraico tradizionalmente democratico, ma anche di quello centrista. I sondaggi mostrano che c’è una grande maggioranza degli americani che appoggia lo Stato ebraico e Trump non ha perso l’occasione di contrastare Biden anche assumendo una posizione molto forte per Israele. Vi saranno poi conseguenze internazionali non esplicite ma importanti. Che gli USA dimostrino di essere un alleato quantomeno ondeggiante anche con chi gli è più vicino allarmerà tutti gli stati che sono dalla sua parte, in Medio Oriente e anche più in là: un costo strategico per gli Usa, che rischia di indebolirne molto il prestigio.

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