
Il 10 agosto, in un’operazione mirata condotta dal Comando Sud dell’IDF e dal servizio di sicurezza interno (Shin Bet), è stato eliminato Jihad Kamal Salem Najar, membro dell’ala militare di Hamas. Un nome che, fino a oggi, era ignoto a molti. Ma dietro quel volto, ora rimosso dal campo di battaglia, si nascondeva uno dei responsabili diretti di uno dei crimini più emblematici del 7 ottobre: il rapimento di Yarden Bibas.
Per comprendere il peso di questa notizia, bisogna tornare a quel sabato nero, quando centinaia di terroristi armati sfondarono i confini israeliani e travolsero le comunità civili del sud del Paese. Al kibbutz Nir Oz, uno dei primi bersagli dell’invasione, viveva la famiglia Bibas: Yarden, sua moglie Shiri e i loro due figli piccoli — Ariel, 4 anni, e Kfir, appena 9 mesi. Sì, nove mesi. Un neonato, con i capelli rossi come la madre, diventato a sua insaputa simbolo dell’impotenza del mondo di fronte al terrorismo.
Quel giorno, Yarden fu separato dalla moglie e dai bambini. Le immagini del rapimento — Shiri stringe i figli, terrorizzata, — hanno fatto il giro del mondo. Ma da quel momento, il silenzio. Nessuna conferma, nessuna prova di vita, nessuna pietà. Solo propaganda, menzogne e comunicati distorti da parte di Hamas.
Dopo oltre un anno di prigionia, Yarden è stato liberato. Solo allora ha appreso ciò che il governo israeliano già temeva: Shiri, Ariel e Kfir erano stati uccisi a Gaza. Secondo le autorità israeliane, non c’è alcun dubbio: sono stati assassinati dai loro rapitori. Hamas, nel tentativo di scaricare la responsabilità, aveva fatto circolare la tesi — infondata — che fossero morti in un attacco aereo israeliano. Ma l’esame dei corpi, restituiti in seguito grazie ad un accordo di cessate il fuoco, ha raccontato un’altra verità. Più cupa, più cruda. E infinitamente più colpevole.
Najar non era un semplice esecutore. Era un operatore militare dell’ala armata di Hamas, coinvolto direttamente nel blitz a Nir Oz, riconosciuto in video e foto diffuse da fonti ufficiali. È lui ad aver preso parte al sequestro di Yarden Bibas. Ed è lui che, fino a oggi, ha continuato ad agire liberamente a Gaza, protetto dalla rete di tunnel, armi e complicità che tengono in ostaggio un’intera popolazione.
La sua eliminazione non è solo un successo militare. È un atto di giustizia. Un segnale. Un promemoria: Israele non dimentica. Israele non abbandona le sue vittime. E anche a distanza di mesi, ogni responsabile sarà raggiunto.
La notizia dell’eliminazione di Najar ha suscitato anche la reazione di Yarden:
“Oggi si è chiuso un piccolo pezzo del mio cerchio. Grazie alle forze dell’IDF, allo Shin Bet e a tutti coloro che hanno preso parte all’eliminazione di uno dei terroristi che mi rapirono il 7 ottobre. Grazie a voi, non potrà più fare del male a nessuno. Per favore, abbiate cura di voi, eroi. Attendo la chiusura del cerchio con il ritorno dei miei amici David e Ariel e degli altri 48 ostaggi ancora prigionieri”.
Le sue parole non chiedono vendetta, ma testimoniano la potenza umana della giustizia: il desiderio che nessun altro subisca ciò che ha vissuto lui. E la speranza, ancora viva, che chi è rimasto indietro possa tornare.
Questa non è una storia “di guerra”. Non è l’eliminazione di “un comandante” qualsiasi. È la chiusura, almeno parziale, di un cerchio di dolore che ha segnato un intero popolo.
Ed è anche una risposta, indiretta, a chi chiede a Israele di “contenere la reazione”, di “negoziare sempre e comunque”, anche con chi ha ucciso neonati e nascosto i loro corpi. Israele oggi non festeggia. Ma piange con più forza e colpisce con più giustizia.
Per Yarden Bibas, sopravvissuto all’inferno, forse è un primo passo verso la pace interiore.
E per chi guarda da lontano, è un invito a non dimenticare che in questa guerra c’è ancora una linea netta tra vittime e carnefici.