
Le battaglie in corso
La guerra di autodifesa di Israele sul terreno prosegue. A Gaza City l’esercito avanza con cautela per evitare il più possibile perdite di soldati e anche di abitanti civili, ma l’avanzata continua: ogni giorno qualche parte del difficilissimo teatro urbano di questa battaglia finale viene preso e liberato dai terroristi, le fortificazioni di Hamas sia negli edifici più alti sia sottoterra sono smantellate. Ormai oltre 800.000 del milione di abitanti della città hanno accettato l’indicazione delle forze armate israeliane a spostarsi in zone sicure, nonostante i tentativi di blocco da parte di Hamas: sia appelli verbali, sia violenze vere e proprie, inclusa la fucilazione, trasmessa online, di alcuni gazawi colpevoli secondo i terroristi di aver accettato rifornimenti alimentari provenienti da Israele. È caldo anche il fronte aereo con lo Yemen, da dove gli Houti continuano a sparare razzi e droni contro la popolazione civile israeliana. Uno di questi droni ha colpito un albergo di Eilat, provocando danni e numerosi feriti. Israele reagisce bombardando installazioni militari, depositi di carburanti, porti da cui gli Houti ricevono rifornimenti militari dall’Iran. Dato che Eilat è sotto attacco e che il pericolo viene soprattutto dai droni difficili da rilevare prima dell’arrivo, mentre i missili sono quasi sempre distrutti fuori dallo spazio aereo israeliano, proprio in questa città sono state installate le prime batterie della nuova difesa laser che Israele ha reso operativa per la prima volta al mondo.
Le nuove sanzioni all’Iran
Il fronte principale nella scorsa settimana è stato però quello delle iniziative politiche, diplomatiche e mediatiche. In questo ambito bisogna distinguere gli atti esclusivamente propagandistici che colpiscono l’opinione pubblica ma hanno scarso impatto, dalle azioni politiche, giuridiche ed economiche vere e proprie, che hanno effetti reali e duraturi. In quest’ultima categoria c’è stata una sola notizia, molto importante e significativa, ma praticamente ignorata dai media: il ritorno delle sanzioni ONU all’Iran che erano state tolte dall’accordo Jcpoa del 2015. In esso era contenuta una clausola “snapback” che permetteva di reintrodurre le sanzioni in maniera pressoché automatica e a prova di veto del Consiglio di Sicurezza se alcuni dei firmatari avessero riconosciuto violazioni gravi ai limiti di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Così è accaduto e neppure il tentativo in extremis di Russia e Cina è riuscito a sabotare il meccanismo snapback. Da oggi vigono dunque le seguenti sanzioni: 1. Embargo sulle armi (divieto di vendita, acquisto o trasferimento di armi convenzionali, incluse restrizioni su missili balistici e tecnologie correlate). 2. Restrizioni su transazioni finanziarie, commercio internazionale e investimenti esteri in settori chiave dell’economia iraniana, come quello energetico (petrolio e gas), bancario e industriale. 3. Divieti di viaggio e congelamento dei beni detenuti all’estero a individui e entità iraniane coinvolti nel programma nucleare. 4 Limitazioni all’accesso dell’Iran a materiali, tecnologie e attrezzature utilizzabili per lo sviluppo di armi nucleari, con un rafforzamento delle ispezioni da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. 5. Controlli e restrizioni su navi e aerei iraniani sospettati di trasportare materiali proibiti o legati al programma nucleare. Sono sanzioni severe, che possono colpire i terzi che commerciano con l’Iran; anche se ci saranno tentativi di aggirarle, esse potranno essere controllate dagli Usa. La ricostruzione militare dell’Iran ne sarà sensibilmente danneggiata.
I riconoscimenti
Degli atti politici e simbolici fa parte certamente il “riconoscimento” di uno stato inesistente come quello “di Palestina”, che è stato proclamato nei giorni scorsi all’Onu da una serie di stati occidentali (Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia ecc.). Esso non ha nessuna conseguenza concreta, ed esprime solo una volontà di mostrare pubblicamente (e soprattutto al proprio elettorato interno) l’avversione a Israele. Ci saranno nei giorni prossimi certamente reazioni israeliane a questi gesti, come la chiusura dei consolati a Gerusalemme che servivano soprattutto gli arabi dell’Autorità Palestinese. Seguiranno contro-reazioni, si innescheranno scontri diplomatici e mediatici, ma il senso è chiaro fin da adesso: questi importanti stati, tutti con governi di sinistra o centrosinistra, che si proclamavano amici di Israele, non lo sono più e vogliono che sia chiaro a tutti. Come del resto Spagna, Irlanda, Brasile. Amici importanti restano gli Usa di Trump, l’Argentina, l’India, l’Ungheria, in parte la Germania e l’Italia.
Il discorso di Netanyahu
Questa posizione si è vista anche durante un altro importante atto simbolico, il discorso di Netanyahu all’Onu. Seguendo un copione consolidato, ma anche le istruzioni contenute in una lettera della delegazione dell’Autorità Palestinese rivelata alla stampa, tutti gli stati musulmani, ma anche Cina, Russia e molti stati africani sono usciti dall’aula per non sentire le posizioni israeliane. Per la prima volta ad essi si sono uniti la Gran Bretagna, la Francia, l’Australia, l’Irlanda, la Spagna, il Belgio, la Slovenia, che di solito non partecipavano alla sceneggiata. Il discorso di Netanyahu è stato molto bello e chiarissimo. Partendo dalla situazione dell’anno scorso, ha ricordatole vittorie di Israele e la possibilità di pace che hanno aperto con Siria e Libano e in futuro magari con un Iran liberato dalla dittatura degli ayatollah. Netanyahu ha rivendicato il diritto di Israele all’autodifesa, ha spiegato che bisogna finire il lavoro a Gaza per evitare nuovi assalti terroristici, ha fatto molti paragoni con la situazione degli Usa e in particolare con l’11 settembre, rivolgendosi al pubblico americano. Ma si è indirizzato anche agli israeliani e in particolare agli ostaggi, premettendo a tutto l’impegno alla loro liberazione. Ha escluso la possibilità di lasciare Hamas al governo della Striscia ma anche la sua sostituzione con l’Autorità Palestinese, e in particolare la trasformazione in Stato di quest’ultima, citando i sondaggi che danno l’80% di gradimento a Hamas fra i suoi sudditi. Ha escluso che Israele possa cambiare politica se il suo governo cadesse, sottolineando il consenso al 90% della Knesset per il rifiuto dello “Stato di Palestina”. Ha rinnovato la speranza di un Medio Oriente pacificato e prospero dopo la vittoria di Israele, aprendo agli Stati Islamici moderati e alle iniziative di Trump, con cui dovrà discutere le ultime proposte americane nel corso dell’incontro di lunedì.
La flottiglia
Fra le iniziative propagandistiche che hanno un’eco mediatica di gran lunga superiore alla propria importanza reale, primeggia la “flottiglia” detta Samud (che, pochi lo sanno, è una parola che indica la resilienza o la determinazione – evidentemente quella di Hamas contro Israele). Il rifiuto della proposta israeliana di scaricare nel porto di Ashdod le (pochissime) merci trasportate come “soccorso per Gaza”, come pure quella della Chiesa di lasciarle a Cipro, sempre con la garanzia di consegna ai gazawi, ha messo in luce il progetto esclusivamente politico e non umanitario dell’iniziativa: “rompere il blocco israeliano”. Ma naturalmente si tratta di un obiettivo solo propagandistico, senza alcuna possibilità di realizzazione. La marina israeliana è perfettamente in grado di bloccare senza violenza le barche e di arrestare i loro equipaggi (che entrando in acque di guerra soggetta a blocco navale compiono un reato), come ha sempre fatto. Incidenti potrebbero scoppiare solo se, come accadde alla nave turca “Mavi Marmara” di un’analoga flottiglia nel 2010, ci fosse una resistenza violenta contro i marinai israeliani. È comunque probabile che di questa montatura propagandistica dovremo riparlare perché la flottiglia da settimane sta ritardando il viaggio, in maniera da raccogliere il maggior eco di comunicazione, magari col progetto di far coincidere il suo arrivo e gli arresti col secondo anniversario del 7 ottobre, in maniera tale da coprirne il ricordo.