
Perché Hamas non consegna le salme dei rapiti defunti
Dopo averne rilasciate quindici nelle ultime due settimane, sono ancora tredici le salme dei rapiti del 7 ottobre che Hamas detiene. Al momento in cui scrivo, non ne ha consegnato di nuove da tre giorni. L’organizzazione terroristica sostiene di avere difficoltà a trovare i corpi, ma Israele ritiene che, salvo forse che per tre o cinque di loro, Hamas sa benissimo dove sono e che dunque può restituirli subito; anzi deve, secondo i termini dell’accordo promosso da Trump. E però non lo fa. Le ragioni di questa violazione sono diverse, nella logica della guerra psicologica e politica in cui Hamas è molto competente. C’è il solito tentativo di spargere dissenso e rabbia in Israele, cercando di indebolirne così il governo. C’è poi il progetto di contrapporre Israele a Trump, che naturalmente tiene alla realizzazione del suo piano e ha ribadito la sua volontà che le rappresaglie israeliane non riaccendano la guerra.
La Fase 2
Ma il punto fondamentale per Hamas non è questa parte dell’accordo che riguarda la liberazione dei rapiti israeliani, in cambio di un numero molto più grande di terroristi condannati, quella che viene chiamata la “Fase 1” dell’accordo. Ai terroristi interessa soprattutto bloccare o snaturare la “Fase 2”, che pone le premesse per il futuro di Gaza e cioè il loro completo disarmo, l’esilio dei loro quadri, la non partecipazione alla futura amministrazione di Gaza – né la loro, né quella dell’Autorità Palestinese che ha ancora una volta mostrato la sua complicità pagando ai terroristi scarcerati, per lo più assassini, stupratori, infanticidi, moltissimo denaro (tratto beninteso dagli “aiuti umanitari” provenienti soprattutto dall’Europa).
L’impegno di Israele per i rapiti
Israele ha accettato il pano Trump innanzitutto per la sollecitudine nei confronti dei rapiti, un fatto che ha sorpreso lo stesso presidente americano. È stato rivelato che Israele conosceva i luoghi, soprattutto tunnel e edifici civili, in cui erano trattenuti e si è astenuto per mesi dal colpirli o dal cercare di conquistarli per non mettere a rischio la loro vita; Hamas era consapevole di questa decisione, piazzava vicino ai rapiti i propri capi e da quei luoghi portava gli attacchi più pericolosi alle truppe israeliane. È una scelta che è costata moltissimo alle forze armate di Israele, non solo in termini di svantaggio tattico, ma anche di vite di soldati.
Il contenuto importante del piano Trump
Ma questa possibilità di recuperare i rapiti vivi e defunti non è stato il solo motivo dell’adesione israeliana. Il punto è che il piano Trump dovrebbe consentire quella concreta vittoria che Israele cercava dal 7 ottobre: la neutralizzazione completa del terrorismo a Gaza, la garanzia della sicurezza necessaria per gli abitanti dei villaggi e delle cittadine vicine alla Striscia, come è successo per quelli della Galilea in prossimità del confine del Libano e della Siria. Per ottenere questo risultato è necessario cancellare totalmente la capacità militare di Hamas e degli altri gruppi terroristi ed escluderli da ogni potere nella Striscia. Non è possibile naturalmente eliminare tutti i membri di queste organizzazioni, come non si potevano liquidare tutti i nazifasciti al termine della Seconda Guerra Mondiale. Ma liquidare i capi, esiliare i quadri, epurare i loro militanti da posizioni di responsabilità, soprattutto toglier loro tutte le armi e passare a una fase di deradicalizzazione della popolazione attraverso un’amministrazione priva di qualunque complicità col terrorismo, sostenuta da una forza armata internazionale altrettanto lontana da loro: questo è il progetto del piano Trump e questa è la ragione del convinto appoggio israeliano a questa uscita dalla guerra.
Perché Hamas cerca di far deragliare il Piano
La sua realizzazione significherebbe insomma la vittoria di Israele a Gaza, che insieme a quella già in corso di attuazione al nord contro Hezbollah e all’indebolimento di Iran e Houti porterebbe a un completo rinnovamento politico e strategico del Medio Oriente: l’isolamento del regime iraniano, la costruzione di una rete di alleanze economiche politiche e militari che aprirebbe uno spazio comune di libertà e di progresso nella fascia fra l’India e l’Europa, sconfiggendo anche l’espansionismo cinese. È chiaro che Hamas cerchi in tutti i modi di far deragliare questo piano. I “giochi” con le salme dei rapiti servono anche a questo, almeno a ritardare la Fase 2. E nello stesso senso va la sanguinosa riaffermazione del proprio potere sulla metà di Gaza da cui si sono ritirate le forze israeliane, con stragi dei clan locali e di chiunque abbia espresso qualche distacco dall’organizzazione terroristica: orribili esecuzioni capitali e sevizie degli arabi di Gaza, di cui le forze politiche e sindacali europee che si erano mobilitate contro Israele pretendendo di difendere “il popolo palestinese” non hanno assolutamente obiettato e neppure preso nota, mostrando di essere non “pro-pal” ma solo “pro-terroristi” e anti-israeliani.
La vicinanza con gli Usa
Ma poi c’è il tentativo politico di determinare la formazione della nuova amministrazione di Gaza, la volontà di coinvolgere paesi dominati dalla Fratellanza Musulmana (di cui Hamas è parte integrante), come Turchia e Qatar, nella forza armata che dovrebbe garantire i disarmo di Gaza, insomma di vincere la pace dopo aver perduto la guerra. Il governo israeliano è perfettamente consapevole di questa strategia e si sforza di contrastarla restando vicino all’amministrazione americana che è l’elemento decisivo della situazione. Trump sembra a sua volta comprendere bene quel che accade, anche se tiene a mantenere l’immagine del pacificatore. Non solo ha molte volte ammonito Hamas a rispettare i patti a pena di reazioni violente da parte israeliana, ma ha mandato a Gerusalemme prima il vicepresidente J.D. Vance e poi il segretario di Stato Rubio per coordinarsi bene con Israele, aggiungendo anche la “previsione” che, se tutto andrà bene, entro la fine dell’anno l’Arabia potrebbe entrare formalmente nei patti di Abramo.
Incidenti parlamentari
La politica israeliana è però già in fibrillazione pre-elettorale, dato che la Knesset andrà rinnovata al più tardi a settembre 2026, ma forse anche prima dell’estate. Vi sono stati quindi alcuni incidenti parlamentari, compresa una votazione iniziale per l’annessione di Giudea e Samaria, contro un esplicito veto americano. Ma Netanyahu sembra in grado di tenere il paese nel solco di una condotta razionale, che impone di non perdere assolutamente l’appoggio dell’amministrazione americana, unico alleato vero rimasto anche a causa del tradimento dell’Europa. Insomma, sotto l’apparente stasi degli ultimi giorni si continuano a giocare partite politiche interne e internazionali essenziali per il futuro della Stato ebraico e della regione.













