
L’approvazione
Ieri sera il governo israeliano ha approvato, con la sola opposizione dei rappresentanti dei due partiti sionisti religiosi (Smotrich e Ben Gvir), la prima fase del piano Trump, che entra in vigore oggi. In giornata l’esercito si ritirerà sulla prima linea prevista dal piano, che gli lascia comunque il controllo diretto del 47% della Striscia, in particolare tutte le zone al confine con Israele e con l’Egitto. Entro 72 ore dal ritiro, cioè probabilmente lunedì, si metterà in opera lo scambio per la liberazione degli ostaggi.
Il costo dell’accordo
Lo scambio riguarda tutti i rapiti vivi, una ventina e i corpi di quelli defunti e parecchie centinaia di detenuti nelle carceri israeliane, 500 criminali pericolosi condannati all’ergastolo per stupro e assassinio, e altri 1750 catturati nel corso dell’operazione a Gaza: circa 100 terroristi per ogni rapito vivo. E’ un prezzo moralmente molto doloroso per Israele: il territorio abbandonato a Gaza è stato conquistato al prezzo di molti caduti e gli assassini in libertà sono un colpo per i familiari degli uccisi. Ma soprattutto queste concessioni aprono la possibilità di una ripresa del rischio terrorista: le zone del ritiro sono quelle del centro di Gaza dove avevano sede i depositi d’armi, i comandi e i tunnel d’assalto di Hamas; i terroristi scarcerati in genere riprendono la loro attività criminale, come mostra l’esperienza. Ma queste concessioni non sono la pace, o almeno non è tutta la pace. Nelle fasi successive si dovrà procedere al disarmo di Hamas, all’esilio dei suoi dirigenti, alla costituzione di una forza armata internazionale che prenderà il controllo della Striscia (già alcune centinaia di soldati americani sono arrivati in Israele a questo scopo) e di un governo che la amministri, senza la partecipazione di Hamas e dell’Autorità Palestinese. Se Hamas resistesse all’applicazione di queste altre clausole, che parecchi suoi dirigenti hanno cercato di negare o di edulcorare, Israele avrebbe il diritto di intervenire di nuovo militarmente, come potrà comunque fare anche in futuro se si presentassero dei concentramenti di truppe nemiche o dei lavori di riattivazione dei tunnel e delle fortificazioni dei terroristi. La situazione attuale, da questo punto di vista, somiglia a quella che vige in Libano e per altri versi nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese: Israele non occupa questi luoghi, ma vi interviene con bombardamenti o anche con truppe quando ne ravvisa la necessità.
Il risultato finale
Ci vorrà tempo e fatica, probabilmente ancora del sangue per la realizzazione dello stato finale della Striscia, con un governo civile non legato ai terroristi, delle forze internazionali che badano a non lasciarli riarmare (perché non è possibile pensare che tutte le decine e centinaia di migliaia di simpatizzanti fanatizzati, che costituiscono la base di arruolamento, la rete di informazione e la forza diffusa delle organizzazioni terroristiche, siano costretti all’esilio). Del resto il conflitto non è del tutto finito neppure in Libano e in Siria, dove pure la vittoria di Israele è chiarissima. Ma la prospettiva è quella di un cambiamento della situazione geopolitica di Gaza che per la prima volta da decenni eliminerebbe il rischio che questo piccolo territorio governato dai terroristi ha presentato per Israele. In questa maniera i fronti aperti dalla guerra sarebbero solo quelli lontani come l’Iran e lo Yemen, con cui ancora i conti non sono chiusi.
La vittoria di Israele
Nessun dubbio, quindi, che il piano Trump messo in atto rappresenterà una grande vittoria per Israele. Non l’ideale di una “vittoria assoluta” che nella storia raramente si presenta, ma questa è una vittoria ampia, importante, capace di modificare in meglio il teatro intorno a Israele, l’intero Medio Oriente e in definitiva gli equilibri strategici mondiali. Per convincersene basta guardare ai fatti. Tutte le guerre di confine, quella di Gaza dopo quella del nord con Siria e soprattutto Libano con tutta la mobilitazione di decine di migliaia giovani sottratti al lavoro, i morti e i feriti si chiuderanno con la sostanziale eliminazione delle truppe terroriste. I rapiti riportati tutti a casa, cioè non solo la realizzazione di un dovere morale di Israele, ma anche la scomparsa di un’arma fondamentale di cui disponevano i terroristi. I territori arabi all’interno dei confini storici di Israele e della Giudea e Samaria non sono insorti e i gruppi terroristi che vi operavano sono stati depotenziati o distrutti. L’Iran e gli Houti sono stati pesantemente colpiti; in particolare il pericolo mortale posto dall’armamento nucleare iraniano è stato ricacciato indietro. L’alleanza con l’America di Trump è molto solida e attiva; il coinvolgimento di numerosi paesi musulmani nel piano del presidente americano è la premessa per una normalizzazione dei rapporti e per l’estensione degli accordi di Abramo. L’inimicizia di molti governi europei e in genere della sinistra si è mostrata velleitaria, inutile, parolaia, motivata non da ricerca di pace ma da antisemitismo. E’ probabile che le mobilitazioni nei paesi occidentali di questa orribile ondata antisemita continueranno ancora, perché il rifiuto della pace è già emerso con chiarezza da parte di chi ho per obiettivo “la Palestina dal fiume al mare”, cioè la distruzione di Israele. Ma anche queste violenza verbali, le manifestazioni, le flottiglie, gli atti di violenza antisemita, gli onori pubblici ai nemici di Israele, i boicottaggi degli ebrei e degli israeliani debbano gradualmente diminuire.
Il merito della vittoria
Nei giorni prossimi Trump verrà in Israele a raccogliere il premio di popolarità di questo grande successo, se non il Premio Nobel cui aspira e che difficilmente gli sarà accordato. E’ giusto, questa costruzione di pace non sarebbe stata possibile con l’inetta amministrazione Biden, bloccata da convenzioni politiche superate, timore di prendersi i rischi necessari, come Trump ha fatto col bombardamento dell’Iran, e da un atteggiamento di diffidenza per il governo israeliano. Ma la vittoria non è solo di Trump, è anche e soprattutto di Israele, della dedizione dei suoi militari, della capacità di resistenza e solidarietà del paese, nonostante le spinte settarie che talvolta emergono, del suo sviluppo economico e tecnologico che è stato decisivo in questa guerra e anche del Primo ministro Netanyahu, che ha preso decisioni coraggiose e spesso isolate, decidendo di entrare a Gaza invece di fare la solita rappresaglia aerea, di prendere Rafah, il confine con l’Egitto e Gaza City, di distruggere con Hezbollah un’audace operazione di intelligence e con i bombardamenti che i vertici militari non volevano, di attaccare l’Iran e ora di accettare un difficile piano di pace.