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    ISRAELE

    L’accordo di tregua in Libano, le sue ragioni e le sue conseguenze

    Il cessate il fuoco
    Dopo un ultimo scambio di missili di Hezbollah contro il territorio israeliano e di bombardamenti israeliani sulle forze terroriste, è iniziata stamattina alle 4 la tregua sul fronte settentrionale della guerra, negoziata fra Israele e Libano con la mediazione (di più: la forte pressione) del governo americano. I termini del cessate il fuoco sono chiari: la tregua vale per 60 giorni, ma potrebbe essere rinnovata: Hezbollah ritirerà le armi e i combattenti che le restano al di là del fiume Litani, una dozzina di chilometri al nord del confine, già raggiunto dalle forze armate israeliane, con la proibizione di riportarle oltre il fiume; nello spazio fra questa linea e il confine internazionale l’esercito israeliano si ritirerà progressivamente e sarà sostituito da quello libanese e da Unifil (le forze dell’Onu) che avranno il mandato esplicito di impedire il ritorno dei terroristi e la ricostruzione delle strutture per l’attacco a Israele che vi avevano eretto; gli abitanti del nord di Israele e del sud del Libano, che erano stati costretti a sfollare torneranno alle loro case; in caso di violazione dell’accordo Israele avrà diritto all’autodifesa sul territorio libanese.

    I limiti dell’accordo
    Sono clausole che soddisfano le richieste iniziali di Israele, cioè la cessazione degli attacchi missilistici di Hezbollah iniziati l’8 ottobre dell’anno scorso; l’applicazione della risoluzione Onu 1701 del 2006, che imponeva appunto lo sgombero dei terroristi fino alla linea del Litani; e il diritto israeliano di intervento in caso di violazione. Non comprendono però la distruzione totale di Hezbollah, che senza dubbio utilizzerà la tregua per riorganizzarsi dopo i durissimi colpi subiti. Per questa ragione gli accordi, almeno stando ai sondaggi, lasciano insoddisfatta la maggioranza degli israeliani, timorosa che prima o poi si riapra la possibilità di un attacco terrorista al nord. La deliberazione governativa svoltasi ieri notte sull’accettazione della tregua porta traccia di questo dissenso, perché in maniera inusuale non è stato unanime ma è finito 12 a 1 con il voto contrario di Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza ed esponente della destra.

    Il discorso di Netanyahu
    Con un energico discorso televisivo tenuto subito prima di questa votazione, il primo ministro Netanyahu ha rivendicato la decisione, dicendo che essa è un passo per la vittoria, che non conclude la guerra sugli altri fronti, che è una scelta giusta per Israele, che la sua realizzazione concreta dipende da quel che accade sul terreno: “Se Hezbollah cercherà di attaccarci, se si arma e ricostruisce infrastrutture vicino al confine, noi attaccheremo, se lanciano missili e scavano tunnel, noi attaccheremo” ha detto. Netanyahu ha presentato tre ragioni sul “perché della tregua” in Libano. La prima è di potersi “concentrare contro la minaccia iraniana”, che è la “testa della piovra” terrorista, che va tagliata impedendo l’armamento nucleare del regime degli ayatollah. La seconda è la necessità di “rinnovare” e “riarmare” le le formazioni militari, spiegando che “non è un segreto” che vi sono stati “grandi ritardi” nelle forniture di armi. “Presto – ha aggiunto – disporremo di armi sofisticate che ci aiuteranno a proteggere i nostri soldati e ci daranno ancora maggiore forza per completare la nostra missione”. Terza ragione, quella di isolare Hamas, rompendo il nesso fra Gaza e Libano che era il punto essenziale della guerra al nord: “Hamas contava su Hezbollah per combattere insieme ed una volta che Hezbollah è eliminato, Hamas resta solo. La nostra pressione su Hamas crescerà e questo ci aiuterà a portare a casa gli ostaggi”. Netanyahu ha ringraziato Biden per il suo “coinvolgimento” nell’accordo. Biden stesso è intervenuto dalla Casa Bianca vantando come un suo successo le “ buone notizie per il Medio Oriente” costituito dall’accordo “designato per essere una permanente cessazione delle ostilità”.

    Le pressioni americane
    E’ vero che questo accordo è un successo dell’amministrazione americana, che l’ha spinta in tutti i modi. Bisogna sottolineare che i 60 giorni di tregua coincidono con la durata rimanente dell’amministrazione democratica. Come ha spiegato in maniera più esplicita di tutti un altro ministro israeliano di destra, Bezalel Smotrich, si tratta di un periodo estremamente delicato, in cui Biden e i suoi uomini hanno ancora tutti i poteri ma in sostanza non devono rispondere all’elettorato delle loro azioni e possono essere tentati di compiere dei gesti pericolosi per Israele, come fece l’amministrazione Obama sconfitta dalla prima affermazione di Trump, lasciando passare all’Onu una mozione molto negativa per Israele. I primi punti della dichiarazione di Netanyahu corrispondono esattamente a questo problema: da qualche tempo il governo americano non permetteva più il rifornimento di armi e munizioni necessarie per la guerra e non aveva consentito al piano israeliano di eliminare le istallazioni nucleari iraniane. Vi è anche il fatto che l’Iran continua a minacciare Israele di una nuova ondata missilistico negli scambi di rappresaglie con Israele e, per minimizzare il pericolo sulla popolazione civile di Israele, la presenza di forze americane è molto importante; ma nelle ultime settimane, per la prima volta dall’inizio della guerra, gli Usa avevano tolto ogni portaerei con la relativa flotta dalle acque del Medio Oriente. E infine vi sono le votazioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove il governo israeliano temeva che Biden lasciasse passare senza veto una risoluzione che imponesse la fine della guerra anche a Gaza, senza la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi.

    Una vittoria e le sue conseguenze
    Insomma la decisione della tregua col Libano è stata presa tenendo conto dei rapporti con gli Usa, oltre che della situazione sul terreno; l’allontanamento di Hezbollah dal confine, l’impegno a non sparare più su Israele a pena della ripresa della guerra e la fine del legame fra fronte del Libano e fronte di Gaza sono senza dubbio una vittoria: questi erano gli impegni che i suoi dirigenti avevano rifiutato per tutta la durata della guerra e che Israele ha ottenuto non per regalo americano ma conquistandoli sul terreno, “grazie all’eroismo dei soldati e alla resistenza del fronte interno”, come ha detto Netanyahu. Ma soprattutto in questa maniera Israele ha acquistato il tempo necessario a entrare in posizione di vantaggio nel nuovo quadro strategico che sarà determinato dalla presidenza Trump. Ancora una volta Netanyahu ha mostrato di essere il solo leader israeliano capace di andare dove crede giusto per il paese, se è il caso contro la volontà degli americani (come nel caso dell’ingresso a Rafah) ma anche contro l’opinione prevalente nel suo elettorato, come questa volta, rischiando dunque il suo consenso personale per il bene di Israele. Ora restano da liberare i rapiti, da eliminare i residui di Hamas, ma resta soprattutto il problema dell’Iran, che ha perso i suoi principali appoggi contro Israele e vede in prospettiva minacciato il suo armamento atomico. Gli ayatollah prenderanno atto di aver perso la guerra o proveranno a intervenire direttamente?

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