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    Le trattative fra Israele e Libia a Roma. Un caso politico che deve far riflettere

    Uno strano balletto diplomatico

    Fra Roma, Gerusalemme e Tripoli, capitale della Libia, si è svolto ieri uno strano balletto diplomatico. Qualche giorno prima c’era stato alla sede del Ministero degli Esteri italiano, con la mediazione del nostro ministro Antonio Tajani, uno “storico incontro” segreto ma ufficiale fra il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen e quello libico, Najla Mangoush, lungamente preparato dalle rispettive diplomazie. Poi è arrivato in Israele l’annuncio pubblico dell’incontro, a quanto dice Cohen concordato fra le due parti e ampiamente ripreso dalla stampa internazionale.

    Immediatamente di seguito sono venute manifestazioni di protesta a Tripoli, mozioni di censura dei deputati, l’ira ostentata del primo ministro libico Abdul Hamid al-Dbeibeh, che ha annunciato di avere “provvisoriamente licenziato” Mangush, che si è affrettata a precisare che sì l’incontro con Cohen era avvenuto, ma per caso, senza intenzione, e che lei comunque non aveva affatto accettato alcuna forma di normalizzazione con Israele. Ma una volta scappata in Turchia (con un aereo di stato) si è rimangiata la smentita e ha rivelato che il suo incontro con Cohen era stato preceduto da una visita del primo ministro libico in Italia. Durante questa visita, il Primo Ministro libico ha incontrato il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, durante il quale i due hanno concordato di programmare un incontro con il Ministro israeliano. L’accordo sarebbe legato alla riapertura della rotta aerea che collega Roma a Tripoli (Libia). Secondo Mangoush, il suo incontro con il ministro israeliano aveva ricevuto l’approvazione esplicita del primo ministro libico. Inoltre ha sostenuto che era stato il primo ministro libico a ordinarle di rilasciare la dichiarazione secondo cui l’incontro era stato non pianificato e accidentale, al fine di evitare ripercussioni. Mangoush ha inoltre affermato di possedere “numerosi documenti” a sostegno delle sue affermazioni e di rifiutarsi di diventare il capro espiatorio, come richiesto dal Primo Ministro (che aveva recentemente annunciato il suo licenziamento).

     

    Il quadro libico

    È presto per stabilire come siano andate le cose nei dettagli, ma è chiaro che il gioco è più complicato di quel che sembra. Innanzitutto La Libia è divisa fra due governi rivali. Tripoli e il nord ovest del paese sono sotto il controllo di un Governo di unità nazionale (Gnu) guidato da al-Dbeibeh, che  è riconosciuto a livello internazionale, ha rapporti soprattutto con l’Occidente ed è rappresentato alle Nazioni Unite e all’Unione africana, ma è meno unito e ha meno controllo territoriale di quanto sembri. Anche Meloni è andato a trovarlo all’inizio di giugno e probabilmente hanno parlato anche di questa trattativa in atto con Israele. La parte orientale e centrale del Paese sono invece sotto l’autorità di un governo parallelo guidato da Fathi Bashagha, che in qualche modo è alleato o dipendente dal più potente signore libico della guerra,  il generale Khalifa Haftar.

    In teoria sia al-Dbeibeh che Bashaga (o Haftar) sono “laici”, ma in entrambi i governi sono forti gli islamisti in versione salafita. La  vicenda di Mangoush, che ha anche il difetto per gli islamisti di essere donna, va vista dunque nel contesto delle lotte che dilaniano sanguinosamente il Paese fin dalla caduta e morte di Gheddafi (2011). L’avvicinamento con Israele è stata probabilmente una mossa di al-Dbeibeh che per conquistare appoggi economici e militari per il progetto di controllare finalmente tutto il Paese; lo scandalo è una contro-mossa per far fallire il suo tentativo.

     

    Gli ebrei libici

    Non bisogna dimenticare anche che in Libia ha vissuto per molti secoli una grande antica e produttiva comunità ebraica. Dopo le discriminazioni fasciste e le difficoltà della guerra, la maggior parte degli ebrei libici dovettero andarsene fra il  1948 e il 1950 per le persecuzioni successive alla creazione dello Stato di Israele e il resto fu costretto a fuggire fra il 1967 (guerra dei sei giorni) e il 1968 (colpo di stato di Gheddafi). La maggior parte degli ebrei libici è andata in Israele, ma molti sono venuti in Italia, in particolare a Roma, diventando una parte importante della comunità ma senza perdere la loro identità, i loro costumi e neppure del tutto i contatti con la Libia. La Libia, come il Marocco e l’Egitto, è un Paese importante per Israele non solo per motivi strategici ed economici, ma anche per ragioni storiche e di memoria.

     

    Il contesto arabo  

    La vicenda libica va inquadrata nel grande cambiamento arabo verso Israele. Dopo i trattati di pace freddi con Egitto (1979) e Giordania (1994), ci vollero oltre venticinque anni per gli Accordi di Abramo (2020), A differenza dei primi trattati, questi hanno investito l’opinione pubblica e gli scambi economici e culturali e hanno mostrato una grande capacità di estensione. Dopo gli Emirati e il Bahrein vi è stato coinvolto il Sudan e soprattutto il Marocco, ci sono contatti intensi con l’Arabia, di recente un ministro algerino ha accusato la Tunisia (oggi retta da un primo ministro autoritario che flirta con l’integralismo islamico e spesso parla contro Israele) di avere aperto contatti per la normalizzazione con lo stato ebraico. L’altro ieri è stato la volta del Qatar, che ospita i dirigenti di Hamas e la televisione filo-integralista Al Jazeera, a dichiarare di “non essere in guerra con Israele”, e di avere solo “difficoltà con l’occupazione” – il che certamente è in qualche modo un’apertura. E anche i rapporti con la Turchia, pure con le difficoltà delle astute giravolte di Erdogan, continuano a procedere in maniera abbastanza positiva. Insomma, il grande muro costruito dal mondo arabo e musulmano intorno a Israele da settantacinque anni ormai è diroccato e lascia intravvedere un futuro di scambi economici e politici che potrebbero portare grandi vantaggi a una regione. L’eccezione a questa spinta verso la pace e il pericolo più grande viene naturalmente dall’Iran, includendo i paesi che esso domina (Libano, Siria, Iraq, Yemen). Ma più si estende l’orizzonte delle trattative, più difficile diventa l’aggressione. E più si sa che ci sono trattative con molti Paesi, più altri possono pensare di unirsi e partecipare al progetto. Per questa ragione rendere pubblici i contatti, come si è fatto nel caso della Libia, può essere utile, perché mostra come accordi una volta inconcepibili siano oggi invece possibile, e anzi che vi siano negoziati con corso. Anche se qualcuno vi si oppone clamorosamente, magari all’inizio con successo.

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