
Lo Yad Vashem ha inaugurato ‘Living Memory’, una mostra volta a dare una nuova voce agli oggetti che hanno attraversato la Shoah insieme ai loro proprietari. L’esposizione nasce per riportare al centro dell’attenzione le persone, le loro storie intime, i frammenti di vita che resistono al tempo più di quanto possano fare i numeri o le statistiche.
Living Memory è un patrimonio composto da milioni di documenti e di oggetti, che ha richiesto due anni di lavoro per essere selezionato e curato. Progettata senza una data di chiusura, la mostra sfrutta tecniche avanzate di conservazione per rendere i reperti finalmente visibili, leggibili ed interpretabili dal pubblico.
L’inaugurazione coincide anche con un traguardo significativo: il recupero di cinque milioni di nomi delle vittime ebraiche della Shoah, un progresso straordinario, che tuttavia mette in evidenza le difficoltà ancora esistenti nel rintracciare il milione di nomi mancanti. E mentre nuove tecnologie aprono spiragli per ulteriori scoperte, lo Yad Vashem sottolinea come l’educazione alla memoria possa coinvolgere anche i più giovani grazie al taglio personale e narrativo delle testimonianze.
La prima sezione racconta, attraverso gli oggetti, alcune storie di sopravvivenza. L’armadio di Genia Sznajder, con il foro lasciato dalla baionetta nazista che sfiorò la giovane di pochi centimetri, è un frammento di legno che racchiude un intero destino sospeso. Vicino, parti del tronco dell’albero cavo in cui Jakob Silberstein trovò riparo dopo essere fuggito dalla marcia della morte. Accanto a questi oggetti, il candelabro dello Shabbat in filo spinato di Mauthausen, una copia originale della Lista di Schindler, il Machzor di Rosh Hashanah scritto a memoria da Cantor Naftali Stern, un libro illustrato da una sopravvissuta e un cucchiaio deformato da un proiettile raccontano ciascuno un atto di resistenza, fede, volontà o fortuna.
E ancora, si trovano documenti del processo Eichmann del 1961, opere d’arte create per affrontare l’indicibile e interpretazioni contemporanee del ricordo, in cui emerge un linguaggio visuale che continua a trasformarsi. Shulamit Levin reinterpreta il “mantello di Giuseppe” come una camicia da prigioniero, logora e contrassegnata, mentre Ruth Schloss dipinge Anne Frank come prigioniera di un campo di concentramento, con la testa rasata, spingendo lo spettatore a confrontarsi con la parte non raccontata della sua storia, quella che realisticamente avrebbe potuto essere e che molti conobbero.
L’apertura di ‘Living Memory’ avviene in un momento in cui antisemitismo e disinformazione stanno crescendo in tutto il mondo, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023. Nonostante il trauma recente, ha affermato Eliad Moreh-Rosenberg, curatore capo, l’interesse per la storia della Shoah non è diminuito; anzi, molte famiglie vittime del massacro raccontano come la memoria di quel passato abbia offerto loro forza nei momenti di crisi. In un mondo che rischia di smarrire i propri riferimenti morali, la mostra ricorda che la conoscenza della Shoah rimane una bussola indispensabile, un invito a custodire il passato per orientare il presente e il futuro.













