
Un anno fa
Al posto della consueta sintesi sui fatti principali della settimana scorsa nella guerra che Israele sostiene, questa volta ho trovato opportuno considerare tutto l’anno che è trascorso. Non solo perché domani sera inizia la celebrazione del capodanno ebraico, per cui faccio a tutti i lettori auguri per un 5876 buono e dolce. Ma anche perché è bene ricordare dove eravamo a settembre dell’anno scorso e dove siamo ora, per misurare come la situazione sia cambiata. All’inizio del 2024 Israele aveva preso il controllo delle zone di confine di Gaza e di parti del nord della Striscia. A maggio aveva conquistato l’asse Filadelfia che delimita il confine con l’Egitto, compreso il valico di Rafah (7 maggio), ma non la città, che sarebbe stata completamente conquistata solo ad aprile 2025, superato il blocco imposto dall’amministrazione Biden e una tregua. Israele aveva eliminato il leader storico di Hamas Ismail Haniyeh il 31 luglio a Teheran. Inoltre aveva colpito alcuni dei principali comandanti iraniani che coordinavano la guerra dei gruppi affiliati come Hamas e Hezbollah: il 25 dicembre 2023 Israele aveva eliminato a Damasco Razi Mousavi, un generale iraniano di alto rango, il 20 gennaio 2024 del generale di brigata Sadegh Omidzadeh, un ufficiale dell’intelligence della Forza Quds, e il 3 aprile il generale di brigata Mohamad Reza Zahedi. In seguito a queste eliminazioni, l’Iran aveva minacciato rappresaglie, che si sono poi concretizzate nell’attacco con droni e missili il 13 e 14 aprile del 2024, senza danni significativi. La controrappresaglia di Israele, frenato da Biden, fu minore ma significativa, colpendo le installazioni antiaeree vicino alla capitale e agli impianti nucleari.
La situazione a settembre 2024
L’Iran appariva allora comunque come una minaccia gravissima e imminente, ormai alle soglie dell’armamento nucleare e fornito di un sistema missilistico capace di raggiungere non solo Israele ma anche l’Europa e di fare gravissimi danni. Anche Hezbollah faceva paura, con i suoi 100 mila missili, di cui parecchi forniti di impianti di precisione. Tenendo di riserva queste armi, Hezbollah bombardava però quotidianamente la Galilea, facendo numerose vittime e costringendo gli abitanti a fuggire nel centro di Israele. Nel gioco erano entrati anche gli Houti, gruppo terroristico che controlla circa metà dello Yemen e grazie alle armi fornite dall’Iran stava bloccando lo stretto fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, vitale per il commercio mondiale; ma iniziava a sparare anche direttamente su Israele. Anche in questo caso l’amministrazione Biden impediva l’autodifesa diretta israeliana; del resto essa bloccava o rallentava molto i rifornimenti militari delle forze armate di Israele (seguita in questo dalla Gran Bretagna). Sembrava in quel momento che Kamala Harris avesse buone possibilità di succedere a Biden, accentuandone le politiche anti-israeliane. Trump avrebbe vinto largamente ma un po’ a sorpresa solo il 20 novembre e avrebbe assunto il potere solo a metà gennaio di quest’anno. Nell’intervallo c’era stata molta preoccupazione per un possibile colpo di coda della vecchia amministrazione all’Onu, come era accaduto con Obama. A livello internazionale si intensificavano dichiarazioni politiche, falsificazioni mediatiche e manifestazioni di piazza contro Israele: iniziava ad affermarsi, sulla base delle false cifre diffuse da Hamas, la propaganda sul “genocidio”, sulla “strage dei bambini”, sulla “fame di Gaza”. Gli ostaggi prigionieri a Gaza erano circa 100.
La svolta
Insomma Israele aveva certamente prevalenza sul campo, ma era in grave difficoltà strategica, coi nemici principali ancora intatti. Proprio a partire da settembre però la situazione iniziò a cambiare profondamente. Il governo ottenne dallo Stato Maggiore lo spostamento al Nord delle truppe non più utilizzate a Gaza. Per decisione personale di Netanyahu, contro l’opinione di molti leader militari e politici israeliani, iniziò l’offensiva contro Hezbollah: il 17-18 settembre, con esplosioni di cercapersona e walkie-talkie (forniti dal Mossad) furono eliminati migliaia dei suoi quadri militari; il 23 settembre partirono i bombardamenti massicci sulle infrastrutture terroristiche che portarono il 27 all’eliminazione del leader carismatico del gruppo Nasrallah; il 1° ottobre iniziò una limitata, ma decisa operazione di terra oltre il confine libanese. Contemporaneamente furono colpiti numerosi obiettivi militari in Siria. Il risultato a medio termine fu un cambiamento politico fondamentale per tutto il Medio Oriente, l’eliminazione dell’influenza politica di Hezbollah sul Libano e il suo disarmo ancora in corso; il futuro scioglimento di Unifil, la forza Onu sostanzialmente “non ostile” ai terroristi, il rovesciamento del regime siriano con tutto quel che ne è seguito. Vale la pena di aggiungere che il 24 ottobre, durante una delle azioni preliminari al completamento della presa di Rafah, veniva eliminato Yaya Sinwar, capo militare di Hamas e primo responsabile del 7 ottobre.
Una spinta che continua
L’impulso iniziato un anno fa è poi continuato con le operazioni contro l’Iran, gli Houti, Hamas a Gaza e in Qatar: è molto migliorato il rapporto politico con gli Stati Uniti, l’alleato determinante, anche se altri stati fanno a gara a cercare di esprimere (in forma solo simbolica, però, perché d’altro non sono capaci) la loro avversione a Israele e le piazze, le università, le redazioni, i parlamenti, i tribunali sono pieni di antisemitismo. L’Iran è stato colpito duramente, il suo programma di armamento nucleare riportato indietro di molti anni. E proprio ieri è saltata l’ultima protezione che gli aveva concesso Obama, l’esenzione dalla sanzioni più pesanti, che è stata annullata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: un colpo durissimo per il regime, che gli renderà molto più difficile non solo il progetto di riarmo, ma anche il mantenimento del livello economico necessario a soffocare il dissenso della popolazione.
Speranza di pace
Insomma, guardare indietro all’anno scorso mostra che la situazione è completamente cambiata, che Israele ha mostrato la forza e la determinazione necessaria a vincere e conservando questo atteggiamento è in grado di concludere la guerra nel giro di pochi mesi, eliminando le minacce incombenti e auspicabilmente liberando gli ostaggi. Questa vittoria sul campo è la condizione perché si acquieti la bufera sull’ottavo fronte, quello della comunicazione e delle prese di posizione politiche. È impossibile che su questo piano le cose tornino come prima, troppo veleno è uscito da politici, intellettuali, giornalisti, gente comune, troppo grande è stato il tradimento sentito dagli ebrei in Europa e altrove. Ma la sola pace possibile, che è quella della vittoria di Israele, permetterà a qualcuno dei nemici di Israele e degli ebrei di tornare indietro sinceramente, comprendendo di aver sbagliato, ad altri di cercare diversi temi di agitazione demagogica o di partecipazione isterica; altri ancora saranno costretti al silenzio dall’evidenza della sconfitta. È quanto ci auguriamo di poter constatare fra un anno.