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    Commento alla Torà. Parashà di Behàr Sinai: fratello, parente e conoscente

    Dopo la conquista della terra d’Israele, Yehoshùa’ (Giosuè) la divise per
    tribù e famiglie. Ogni capo famiglia ebbe così la sua proprietà ereditaria. Il
    popolo d’Israele divenne così una comunità di liberi proprietari terrieri. Nel
    caso in cui qualcuno avesse venduto parte dei suoi terreni per necessità
    economiche, poteva riscattarlo dopo due anni. In ogni caso i terreni tornavano
    alla famiglia durante l’anno dello Yovèl (giubileo)
    che ricorreva ogni cinquanta anni. Chi vendeva un terreno, non vendeva quindi
    la proprietà ma solo l’usufrutto per il numero di anni che mancavano al
    prossimo Yovèl.

    Il caso della vendita per necessità viene descritto nel seguente versetto:
    “Se un tuo fratello diventerà povero e venderà parte della sua proprietà
    terriera ereditaria, un suo parente potrà riscattare per lui la proprietà che
    aveva venduto. E se qualcuno non ha un parente che riscatti, ma miglioreranno
    le sue condizioni economiche e troverà i mezzi per il riscatto, farà i conti
    degli anni per i quali il terreno è stato venduto e restituirà il resto al
    compratore. Poi potrà ritornare nella sua proprietà ereditaria. E se non
    troverà mezzi sufficienti per farsela restituire, quello che ha venduto resterà
    in possesso del compratore fino all’anno dello Yovèl e allora il padrone originale tornerà nella sua proprietà
    ereditaria” (Vaykrà, 25:25-28).

    Rashì (Francia, 1040-1105) si sofferma sulle parole “e se
    qualcuno non ha un parente che riscatti” e domanda come sia possibile che un
    israelita non abbia un parente che possa riscattare il terreno venduto. Infatti
    ognuno veniva da una famiglia e da una tribù e certamente si poteva trovare
    qualche parente anche lontano. Rashì spiega che certamente tutti hanno dei
    parenti. Il versetto si riferisce a parenti in grado di riscattare la proprietà
    venduta.

    R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1886, New York) in Daràsh Moshè (ed. inglese p. 214) afferma che è sconcertante che la
    Torà abbia usato un’espressione ambigua mentre avrebbe potuto dire chiaramente
    “E il parente non riscatterà il suo terreno”. R. Feinstein sostiene che la Torà
    vuole insegnare da questo versetto che un israelita che non si interessa della
    situazione finanziaria di un parente al punto che non gli importa abbastanza
    per assisterlo, non è considerato un parente. Chi si rende conto che una tale
    mancanza di interesse equivale a rinunciare alla parentela, sarà più
    disponibile a farsi persuadere a fare il suo dovere di parente. Capita che
    qualcuno chieda un favore a un amico e costui rifiuti di farlo. Dire all’amico
    che se non gli farà il favore non lo considererà più suo amico qualche volta ha
    l’effetto desiderato. In modo simile la Torà ci insegna che chi non riscatta il
    terreno di un parente, è come se la parentela non esistesse. Se il parente che
    ha i mezzi per riscattare si rende conto di questa realtà sarà probabilmente
    convinto ad assumersi le responsabilità della parentela.  

    Rav Joseph Dov Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) commenta un versetto un po’
    più in là nella stessa parashà dove è
    scritto: “Se un tuo fratello dovesse diventare povero e non fosse più in grado
    di mantenersi nella comunità, lo dovrai aiutare e far si che possa
    sopravvivere, che sia proselita o nato israelita” (ibid., 35). R. Soloveichik
    paragone il termine “re’a” (prossimo,
    vicino, conoscente) con il termine “ach”
    (fratello). Quando una persona è consapevole dell’esistenza di altri, è
    categorizzato come “re’a”. Ma dal
    momento in cui si comincia a percepire un altro, non solo come conoscente, ma
    si ha l’esperienza dei suoi momenti felici, delle sue frustrazioni e speranze,
    si diventa un “ach” un fratello.
    Quanto la Torà tratta l’argomento della tzedakà
    (beneficienza) usa sempre il termine “ach”
    invece di “re’a”. I precetti della tzedakà e del comportamento caritatevole
    fanno parte della fratellanza. In contrasto, quando la Torà tratta argomenti di
    diritto civile, di non danneggiare il prossimo, usa il termine “re’a”. Per esempio, “non desiderare la
    casa del tuo prossimo” (re’ekhà). Il
    fatto che egli sia mio vicino impone su di me l’obbligo di rispettarne la
    proprietà e i diritti. Tuttavia la sola vicinanza non gli dà diritto di
    ricevere il mio sostegno perché il legame di “re’a” è troppo debole. Per questo
    è necessario un legame più forte, quello di “ach
    ”, fratello. 

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