
Ricordi di manifestazioni di gioventù con in mano la tessera del partito radicale e tanta voglia di cambiare il mondo. Ascoltavo John Lennon e cantavo “Give peace a chance” convinta che bisogna lottare per la pace, sempre. Ancora oggi la penso così. Bisogna lottare per la pace, sempre, quella giusta. Penso che la guerra a Gaza potrebbe finire subito se si restituissero gli ostaggi e Hamas fosse finalmente sradicata da Israele. Così ci sarebbe pace per la popolazione civile di Gaza e per Israele. Ancora oggi quindi andrei volentieri a manifestare per questi principi. E allora mi chiedo: perché non andrò a nessuna delle manifestazioni per la pace a Gaza?
La prima è il 6 giugno al Teatro Franco Parenti di Milano organizzata da Azione, Italia Viva e Sinistra per Israele, i riformisti dem, più Europa in una inaspettata rinascita del Terzo Polo in funzione anti Schlein. Si chiede giustamente la restituzione degli ostaggi e lo slogan è “due popoli, due stati, un destino”. Principi giusti, ma mi sembra tanto il titolo di una serie tv di Netflix più che una possibilità reale. Non mi convince l’espressione “due popoli, due stati”, che tanto ricorre in continuazione nei media e nei social italiani. Mi sembra un’illusione mai appoggiata dagli stessi palestinesi. Per non parlare poi di Hamas o dell’Iran che non vogliono due stati, ma soltanto l’annientamento di Israele.
La seconda è una shakshuka di sinistra: dal pd, al movimento cinque stelle ad Alleanza sinistra e verdi in piazza San Giovanni, luogo storico della sinistra, delle manifestazioni per i diritti sindacali, del concertone, di tanti ricordi di gioventù. Ma che già si prevede diventerà una piazza d’odio, non ammesse bandiere d’Israele, solo quelle palestinesi, nessun accenno all’antisemitismo imperante, in cui si uniscono forze che hanno trovato nella solidarietà a Gaza, ma soprattutto nell’attacco a Israele, un collante che altrimenti le divide nella maggior parte delle istanze parlamentari e nelle competizioni amministrative. Non tutto, però, fila liscio. I dem temono le frange estremiste che arriveranno e cercheranno di dire la loro. Si griderà al genocidio, ad Israele assassino e a tutte le cose di cui purtroppo abbiamo dovuto fare il callo in questi due anni.
Ciliegina sulla torta la manifestazione del 21 giugno dell’Arci che si preannuncia difficile dal titolo: ‘No guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo’ per il sostegno di tutte le campagne e le mobilitazioni per Gaza, per la Palestina, per fermare Israele”. Dove l’espressione genocidio è ormai assodata.
Sospiro e penso che per fortuna non sono obbligata a prendere parte a nessun corteo. Anche perché tutto questo mi ricorda drammaticamente soltanto una cosa: i due minuti d’odio, la pratica collettiva esercitata dal governo del Grande Fratello in 1984 di George Orwell. Il teleschermo proietta immagini del nemico supremo della patria Oceania Emmanuel Goldstein (Orwell scelse non a caso un nome ebraico). Le sequenze sono studiate per coinvolgere psicologicamente gli spettatori che dopo pochi secondi inveiscono contro Goldstein e lo schieramento con cui ci si trova in guerra in quel momento. Chiunque non manifesti abbastanza odio viene considerato un traditore. Adesso non abbiamo più bisogno di Eurasia o Estasia, le nazioni nemiche immaginate da Orwell. Israele assolve al compito dei due minuti d’odio, tutti possono inveire contro lo Stato ebraico e più si urla, più si è considerati mainstream, meglio ancora se si indossa una bella kefiah. Ma, per favore, non chiamatelo capro espiatorio, né antisemitismo.