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    G.I. Jews – Il ruolo dei soldati ebrei nell’esercito americano durante la liberazione dell’Italia

    Nel 2006, Deborah Dash Moore pubblicava un libro seminale, GI Jews: How World War II Changed a Generation, per capire l’evoluzione e la trasformazione dell’identità ebraica in America negli anni della seconda guerra mondiale. Più di 550.000 ebrei, volontari e di leva, cittadini, figli, nipoti, discendenti di emigranti, o emigranti di fresca data dalla Germania e dall’Italia, scampati alle persecuzioni, entrarono a far parte dell’US Army e presero parte all’immane conflitto contro le forze del male su tutti i fronti, in Nord Africa, in Italia ed in Europa, come a Guadalcanal, in Nuova Guinea, nelle Filippine ed in sperdute isole del Pacifico. La sfida era doppia, non solo un nemico crudele da annientare ma anche i pregiudizi di parte dei commilitoni. La grande generazione, come oggi è chiamata, uscì vittoriosa da entrambe le sfide. L’esercito americano servì per molti di questi soldati ebrei, sia che provenissero da Sioux Falls o dal Bronx, da un milieu operaio o borghese, da crogiolo per potere meglio inserire nella società americana del dopoguerra. Basti pensare al G.I. Bill, una legge che prevedeva una serie di benefici per i veterani della Seconda Guerra Mondiale di ritorno, per esempio l’accesso alle università, fino ad allora in parte chiuse agli ebrei figli di immigranti.

    Robert Capa: Italia 1943
    Robert Capa: Italia 1943

    Alla vigilia della seconda guerra mondiale c’erano pochissimi ebrei nell’esercito americano. Sparsi tra le file alcuni soldati, arruolati nell’esercito in seguito alla crisi del 1929, e alcuni ufficiali di basso grado. Anche se ogni anno tra i diplomati usciti da West Point c’erano ebrei, l’antisemitismo sociale rendeva loro molto difficile intraprendere la carriera militare nell’esercito permanente. Tuttavia, c’erano molti ebrei in servizio nella Guardia Nazionale.Per esempio, il 7° Fanteria della Guardia Nazionale di New York aveva una presenza ebraica consistente. Dopo il proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor, le cose cambiarono radicalmente. I dati sono chiari. Sulla popolazione totale degli Stati Uniti, che alla viglia del conflitto ammontava a 135.000.000, vi erano 4.500.000 ebrei. Eppure, su un numero totale di soldati che alla fine della guerra raggiunse non meno di 13.000.000, c’erano 550.000 ebrei in servizio nelle forze armate degli Stati Uniti. Mentre la percentuale degli ebrei nella popolazione totale ammontava al 3,33%, la percentuale degli ebrei nelle forze armate era del 4,23%. Degli ebrei che prestarono servizio nelle forze armate statunitensi, l’80% prestò servizio nell’esercito americano (US Army), il 17% nella marina americana (US Navy) e il 3% nei marines (US Marines). Di quelli nell’esercito, se non meno del 16% erano “dogfaces”, o prestavano servizio nella fanteria, il 33%, più di 100.000, prestava servizio nell’aeronautica militare degli Stati Uniti (USAAF). Non meno di 11.000 compirono il sacrificio supremo, e le varie stelle di Davide sparse nei cimiteri militari americani ne rimangono mute testimonianze. Circa 40.000 rimasero feriti. Il numero delle decorazioni non è stato meno impressionante: due medaglie d’onore del Congresso, 157 medaglie (DSM, AC; NC), non meno di 1600 Silver Stars. Le altre decorazioni, citazioni e premi distribuiti agli ebrei statunitensi ammontano a 50.242. Circa il 60% di tutti i medici ebrei negli Stati Uniti di età inferiore ai 45 anni andarono volontari o vennero chiamati in servizio.

    Probabilmente non meno di 10.000 ebrei prestarono servizio nell’esercito americano in Italia. Alcuni sono celebri. Per esempio Robert Capa, reporter delle prestigiose riviste Collier’s Weekly e Life, che con estremo coraggio documentò la campagna in Sicilia, per esempio la conquista di Troina, ma anche lo sbarco a Salerno e la liberazione di Napoli. La fiducia che Capa godeva è dimostrata dal fatto che era l’unico giornalista “apolide” accreditato al fronte.

    Lt. Phil Goldstein davanti al suo caccia, P 38
    Lt. Phil Goldstein davanti al suo caccia, P 38

    Non meno famoso il novellista Joseph Heller, autore del romanzo Catch-22, una satira sulla guerra e la burocrazia, frutto della sua esperienza. Heller, nel 1942, all’età di 19 anni, si arruolò nell’Aeronautica Militare. Due anni dopo fu inviato sul fronte italiano, dove effettuò 60 missioni di combattimento su un bombardiere B-25. La sua unità era il 488th Bombardment Squadron, 340th Bomb Group, 12th Air Force. Heller in seguito ricordò la guerra come “divertente all’inizio… Avevi la sensazione che ci fosse qualcosa di glorioso in essa”. Al suo ritorno a casa “si sentiva come un eroe… La gente pensa che sia davvero straordinario che io abbia combattuto su un aereo e abbia volato sessanta missioni anche se dico loro che le missioni erano in gran parte corse di lattai”. Dopo la guerra, con il G.I. Bill, Heller studiò inglese alla University of Southern California e poi alla New York University diplomandosi nel 1948. Naturalmente Heller non era l’unico ebreo nell’aviazione militare che combatteva in Italia, vi era per esempio il tenente colonnello Robert S. Levine, 4th Fighter Squadron, 52nd Fighter Group, uno dei piloti da caccia più decorati della guerra. Un asso era invece il tenente Phil Goldstein, 49th Fighter Squadron, 14th Fighter Group. Ai comandi del suo caccia, un P-38 battezzato “Jewboy”, ottenne tre vittorie aeree: un Me-109 il 2 aprile, durante una scorta di caccia a B-17 che volavano su Steyr, in Austria; un Fiat G-50 della famigerata aviazione della Repubblica Sociale Italiana, il 7 maggio, durante una scorta di caccia B-17 a Bucarest, un Focke-Wulf 190 il 25 maggio, durante una scorta di caccia di B-24 a Piacenza, e quattro bombardieri Ju-88 distrutti da un mitragliamento durante una missione contro un complesso aeroportuale tedesco nelle vicinanze di Aviano e Villaorba, il 14 maggio 1944. Rivendicò anche un Me-109 danneggiato il 30 marzo, durante una scorta di caccia di B-24 a Sofia, in Bulgaria.

    Jewboy, il caccia di Lt. Phil Goldstein
    Jewboy, il caccia di Lt. Phil Goldstein

    Tra gli ebrei immigrati negli Stati Uniti, che presero parte alla campagna di Italia, vi furono coloro che si rivelarono eroi, per esempio il caporale Harold Monash, volontario nei Rangers che prese parte ai combattimenti in Sicilia. Figlio di genitori abbastanza prosperi che vivevano a Berlino, con l’arrivo di Hitler, la famiglia fuggì negli Stati Uniti. Harold prese parte allo sbarco di Gela in Sicilia, dove i Rangers si scontrarono con la Hermann Göring, una divisione corazzata della Luftwaffe. I Ranger privi di mezzi riuscirono a “liberare” bottiglie di vino, che svuotate vennero riempite di benzina, un tipo di “cocktail Molotov” abbastanza particolare, che vennero gettate contro i mezzi corazzati nemici. Uomini contro carri armati: vinsero gli uomini. Vi erano anche ebrei immigrati dall’Italia. Tra essi spiccano Settimio Terracina ed Alessandro (Roger) Sabbadini. Terracina, il pugile romano che aveva in atto di sfida fatto cucire una Stella di David cucita sui pantaloncini, in seguito alle leggi raziali immigrò negli USA. Arruolato nell’esercito, prese parte allo sbarco ad Anzio. Roger Sabbadini nelle sue memorie, Unavoidable Hope: A Jewish Soldier’s Fight to Save His Family from Fascism, inizia con un flashback in cui descrive lo sbarco sulle spiagge di Anzio e Nettuno, dove Alex sbarcò a soli 200 metri davanti alla villa estiva una volta possesso della famiglia. Tra i flashback, vengono anche narratii combattimenti in Nord Africa, Sicilia e Italia. Alex accompagnò gli agenti americani incaricate di catturare Benito Mussolini e portarlo davanti alla giustizia. La guerra era finita e l’Italia era stata liberata. Era venuto il momento di tornare a casa, ma questa è un’altra storia.

    Foto copertina: Robert Capa “Sicilia 1943”

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