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    L’11 settembre e la tenacia di New York

    C’era un perfetto cielo azzurro. E’ un dettaglio che spesso ricorda chi era a New York l’11 settembre, quando i due aerei si scontrarono come un violento fulmine a ciel sereno nelle torri gemelle.

     

    Oltre alla devastazione di quei giorni, l’11 settembre rappresenta per me, e credo per molti altri, una perdita dell’innocenza. Sono nata a Beirut a ridosso della guerra civile libanese, e dopo essermi trasferita a Milano con la mia famiglia, ricordo ancora vivamente il senso di pericolo costante degli anni di piombo e l’attacco della sinagoga di Roma. Il terrorismo non era niente di nuovo per me, che seguivo costantemente da vicino i conflitti in Israele. Eppure a New York, avevo un senso di tranquillità mai provato prima. Mi ero trasferita a Manhattan da poco meno di due anni e una cosa che mi aveva particolarmente colpita era l’assenza dei servizi di sicurezza delle sinagoghe, inconcepibile per un ebreo europeo. Inoltre, gli americani mostravano una totale mancanza d’interesse per le notizie dall’estero. Il telegiornale riportava ampliamente eventi locali, ma c’era poco o niente sulle guerre in Medioriente o in altri paesi. Parevano problemi lontani, che non potevano toccarci, e questo iniziava a dare anche a me un falso senso di sicurezza. 

     

    New York, per molti, rappresentava una terra promessa, un rifugio e un luogo dove i sogni si possono realizzare. E quei sogni, in quel giorno, si sono spezzati. Eppure, quello che quel vile atto di terrore non è riuscito a strappare è l’amore per questa città.

     

    Nonostante l’orrore di quei giorni sono stata testimone dell’incredibile empatia, coraggio e dell’ammirevole senso civico dei newyokesi. Dai primi momenti, gli eroici pompieri e poliziotti si sono recati verso le torri sacrificando le loro vite mentre innumerevoli persone sono corse a donare sangue negli ospedali. Gli alberghi hanno immediatamente aperto le porte alle persone sfollate di Downtown e mentre le folle camminavano verso il nord della città, allontanandosi da Ground Zero, le macchine e i taxi aprivano i finestrini per far ascoltare ai pedoni le ultime notizie dalla radio.

     

    Dopo che Manhattan ha chiuso i ponti e i tunnel, non si sono visti assalti ai supermercati, si prendeva il necessario, senza panico e con un occhio di riguardo verso gli altri. Nei giorni a venire, più di un senso di paura, si percepiva una forte solidarietà nei confronti non solo dei propri cari, ma nei riguardi di tutte le comunità, ugualmente colpite dalla tragedia.  E negli anni a venire, Downtown è riemersa più forte di prima.

     

     

    “New York Tough”, uno slogan concepito dall’ex governatore Cuomo durante la pandemia, cattura al meglio la tenacia di questa città, vista anche durante il blackout del 2003, e dopo l’uragano Sandy. E’ stata in parte abbandonata durante il lockdown, ma il cuore dei newyorkesi si è fatto sentire quando i ristoratori usavano le loro cucine per preparare cibo al personale sanitario e ai bisognosi, o alle 19 in punto, quando gli applausi rincuoravano medici e infermieri stremati. I miei concittadini, per la più parte vaccinati, dimostrano il loro senso civico quando continuano volontariamente a munirsi di mascherina. E non perdono la voglia di vivere neanche con i limiti del Covid, usando l’ingegno per trasformare la città con piacevoli spazi all’aperto fuori dai ristoranti, sempre pieni anche durante le temperature sotto zero. Certo è una città dura, costosa, a volte sporca e ultimamente anche un po’ più pericolosa, ma chi è di qui sa che nessuno meglio dei newyorkesi sa rialzarsi in piedi e andare avanti. L’11 settembre rimarrà una ferita aperta, ma ci insegna quello che la città può sormontare.

     

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