Skip to main content

Ultimo numero Luglio – Agosto 2025

Scarica il Lunario

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati







    NEWS

    Quando la propaganda diventa abuso psicologico: il gaslighting collettivo

    C’è un meccanismo psicologico ben noto nella violenza domestica: la vittima, sottoposta a cicli ripetuti di aggressioni fisiche e psicologiche, finisce per interiorizzare la narrazione dell’abusatore. All’inizio resiste, si indigna, prova a difendersi. Poi, con il tempo, la stanchezza prevale, le accuse diventano talmente costanti e pervasive da insinuare un dubbio corrosivo. Oggi, su scala geopolitica, sta accadendo qualcosa di simile a parte dell’opinione pubblica che sostiene Israele. Nelle relazioni abusive si parla di gaslighting: l’aggressore manipola la percezione della realtà, nega l’evidenza, ribalta i fatti. Se la vittima reagisce, l’abusatore la accusa di essere lei la causa dell’abuso. Lo stesso schema si ripete nel linguaggio mediatico e politico contro Israele.

    Lo abbiamo visto pochi giorni fa, all’indomani del sanguinoso attacco terroristico a Gerusalemme: le vittime israeliane sono scomparse dalle primelearned helplessnessartella l’opinione pubblica con una sola accusa: “Israele genocida.” Non importa che storicamente e giuridicamente la definizione di genocidio non regge; ciò che conta è la ripetizione ossessiva del messaggio, fino a renderlo una verità percepita. Il bombardamento mediatico e sociale è stato così continuo che ha portato all’isolamento di chi la pensa in modo diverso. Come nella violenza domestica, dove l’abusatore isola la vittima dai suoi amici e familiari, anche qui la propaganda ha creato un ambiente dove chi difende Israele viene stigmatizzato, escluso, minacciato. La voce dell’accusatore diventa la più forte, mentre le voci di sostegno si affievoliscono.

    E così, piano piano, si insinua il dubbio: “E se fosse vero? E se fossimo davvero dalla parte sbagliata della storia?” In psicologia si parla di learned helplessness, impotenza appresa. È il momento in cui la vittima smette di reagire perché ogni tentativo è fallito. Nel contesto dell’opinione pubblica, significa prendere le distanze da Israele, oppure restare in silenzio per paura di essere isolati. Nei casi più estremi, significa iniziare a parlare come parlano i detrattori, nella speranza di placare l’odio, proprio come la vittima che chiede scusa al suo aggressore pur sapendo di non avere colpe.

    Oggi assistiamo a un fenomeno devastante: anche i sostenitori d’Israele, vittime della propaganda, stanno iniziando a credere alle accuse che combattono. Non perché siano vere, ma perché la mente umana, sottoposta a una pressione costante e isolata dal sostegno, finisce per dubitare di sé stessa. Proprio come le vittime degli abusi. E questo è il successo più oscuro della propaganda: non solo delegittimare Israele sul piano internazionale, ma spezzare la fiducia interiore di chi dovrebbe difenderlo. Non si tratta di un normale dibattito politico, nemmeno del frutto di una “critica legittima” alla politica di un governo. È un processo di annientamento morale: prima ti colpiscono fisicamente, poi ti convincono che la tua stessa difesa sia una colpa. È terrorismo psicologico, condotto con le armi della propaganda. La storia però ci insegna che non è una dinamica nuova.

    Nel 1974, all’indomani della Guerra del Kippur, Golda Meir rispose a chi sosteneva che Israele fosse isolato e condannato dalla comunità internazionale: “I nostri nemici non ci perdoneranno mai per la nostra esistenza.” Questa frase resta vera oggi come allora. Il fine ultimo di chi diffonde accuse false non è la pace, né la giustizia: è mettere in dubbio il diritto d’Israele a esistere. Israele può essere criticato, si possono discutere le sue politiche, ma il suo diritto alla sopravvivenza non è negoziabile. Questa guerra è lunga e dolorosa, sia per la società israeliana sia per le comunità della diaspora, che ne subiscono l’onda d’urto emotiva e culturale, eppure, è necessaria, perché solo così si può neutralizzare la minaccia che incombe sull’esistenza dello Stato ebraico. Le campagne propagandistiche che continuano a sostenere che Israele stia compiendo un genocidio stanno contagiando l’opinione pubblica, e spesso compromettono la capacità di replicare efficacemente. I loro obiettivi non sono mai neutri; spesso sono di matrice antisemita e mirano a minare la sopravvivenza dello Stato ebraico. Forse finalmente i critici di Israele mostrano le loro vere intenzioni, forse questa guerra serve solo come pretesto. Ecco perché oggi più che mai resistere all’inganno è un dovere: la sopravvivenza di Israele dipende anche dalla fermezza di chi lo sostiene.

    CONDIVIDI SU: