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    La dichiarazione comune
    Nella giornata di ieri tra stati europei hanno comunicato ufficialmente di aver riconosciuto “lo stato di Palestina”. Presto potrebbe aggiungersene un quarto, il Belgio. Tutti questi stati hanno governi di sinistra, importanti minoranze islamiche costruite negli ultimi decenni per via di immigrazione. In tutti vi è una tradizione importante di antisemitismo, recentemente rinnovata. Tutti hanno votato per l’ammissione dello “Stato di Palestina” come membro effettivo dell’Onu e tutti hanno approvato con soddisfazione i mandati di cattura richiesti alla Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant. La dichiarazione contemporanea del riconoscimento, che era stata anticipata la settimana scorsa del “ministro degli esteri europeo Borrell, spagnolo e socialista, dà al gesto un carattere molto chiaramente politico.

    Che cos’è il riconoscimento
    Il riconoscimento non crea uno stato, ne constata l’esistenza. Quando uno stato ne riconosce un altro, significa che lo accetta come soggetto di diritto internazionale. Come scrive il prof Cassese nel suo manuale di Diritto internazionale in passato si sosteneva che l’unico requisito richiesto al nuovo soggetto per il riconoscimento fosse l’effettivo controllo di una comunità territoriale. Sulla base della Carta dell’Onu, negli ultimi decenni si è dato più peso all’esigenza che il nuovo soggetto rispetti effettivamente le regole fondamentali della comunità internazionale (come il divieto di ricorrere alla guerra in violazione di trattati internazionali), i diritti umani e quelli politici interni.

    Perché non ha senso riconoscere la “Palestina”
    Il fatto è che questi requisiti mancano tutti alla “Palestina”. Non c’è e non c’è mai stato un territorio sovrano controllato in esclusiva: l’esercito israeliano per contrastare il terrorismo controlla non solo a Gaza ma anche in Giudea e Samaria. Non c’è mai stato uno stato di cui la “Palestina” sia erede: prima degli accordi di Oslo il territorio era amministrato da Israele; prima ancora, dal 1948, da Giordania ed Egitto. Andando indietro troviamo il Mandato Britannico, l’Impero ottomano, i Mamelucchi, i Crociati e così via. La “Palestina” non ha autonomia economica, la sua moneta è lo shekel israeliano, le sue finanze vengono dagli aiuti internazionali e dai dazi raccolti da Israele. Le uniche ed ultime elezioni sono state fatte vent’anni fa, il Parlamento non si riunisce da quindici, la magistratura non ha alcuna autonomia, la tortura è diffusa, il territorio è ufficialmente “judenrein” come uno stato nazista. Non c’è poi una “Palestina” , ma almeno due: Gaza e Ramallah. Quest’ultima, che sarebbe riconosciuta da Spagna e soci, non controlla di fatto neppure città come Jenin e Nablus che distano una trentina di chilometri. Anche per questo si tratta di un riconoscimento privo di senso (e requisiti).

    Un premio al terrorismo
    Il senso del gesto degli stati europei è insomma tutto politico, non giuridico o diplomatica: non è diverso da quello dei mandati di cattura richiesti contro Netanyahu e Gallant. Si tratta di contrastare l’autodifesa degli ebrei, come vogliono gli estremisti che occupano le università e i filoterroristi di tutto il mondo: fatto proprio in questo momento è un gesto ignobile di ostilità contro Israele, con cui si significa che uccidere gli ebrei è lecito e questi non hanno il diritto di difendersi. Questo si spiega chiaramente guardano il carattere degli stati che l’hanno intrapreso.

    Spagna
    La Spagna è il paese della cacciata del 1492, che ha escluso gli ebrei dalla vita civile per questi cinquecento anni ed ha avuto di recente partiti importanti dichiaratamente anti-israeliani (Podemos, gli indipendentisti catalani, che governano insieme al partito socialista, quel che in Italia si chiamerebbe “campo largo”). Gli atti di ostilità contro Israele non si contano. Di recente il primo ministro Sanchez ha comunicato di rifiutare l’approdo in tutti i porti spagnoli a tutte le navi che portano rifornimenti militari a Israele.

    Norvegia
    Il paese di Quisling (nome del primo ministro norvegese fra il 1942 e la fine della II guerra mondiale, che è diventato sinonimo di collaborazionista) la Norvegia è “lo stato più anti-israeliano dell’intero emisfero occidentale”, come scriveva Giulio Meotti già tre mesi fa. Ha rotto tutti i rapporti delle sue università con quelle israeliane. Un’aggravante della sua posizione è che gli accordi detti di Oslo, perché conclusi nella sua capitale con la sua mediazione, non parlano mai di stato palestinese, ma solo di autonomia e proibiscono ogni cambiamento istituzionale, come la fondazione di uno stato, senza l’accordo dell’altra parte.

    Irlanda
    Anche la repubblica irlandese fu molto vicina ai nazisti nella II guerra mondiale, costretta alla neutralità solo dalla presenza britannica. L’Ira, il gruppo terrorista nord-irlandese molto vicino a Fiamma Fail che governa la repubblica del Sud ed è responsabile di questa decisione, ha avuto per decenni rapporti molto intensi con i terroristi palestinesi: si è addestrata nei loro campi e in Libia, ha scambiato armi e metodi militari. Un’inchiesta dell’ADL ha nostrato già nel 2014 che la maggioranza della popolazione aderiva a stereotipi antisemiti.

    Le reazioni israeliane
    Il ministro degli esteri Katz ha ordinato il ritorno degli ambasciatori in Spagna, Norvegia e Irlanda per consultazioni, un gesto che nella diplomazia internazionale è solo un gradino sotto alla rottura delle relazioni diplomatiche. Netanyahu ha risposto al gesto dei paesi europei con una dichiarazione: “L’intenzione di diversi paesi europei di riconoscere uno Stato palestinese è una ricompensa per il terrorismo [dato che] l’80% dei palestinesi in Giudea e Samaria sostiene il terribile massacro del 7 ottobre. Non si può dare uno Stato a questa malignità. Sarebbe uno Stato terrorista. Cercherà di ripetere ancora e ancora il massacro del 7 ottobre; noi non acconsentiremo a questo. Ricompensare il terrorismo non porterà la pace e non ci impedirà nemmeno di sconfiggere Hamas”.

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