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    Rivoluzionaria, anticonformista, pioniera del femminismo. Forte e incompresa, un personaggio ribelle, un’antifascista convinta, ma soprattutto una donna animata dal desiderio di indipendenza ed emancipazione. Si tratta di Elena Di Porto, conosciuta anche come “La matta di piazza Giudia”. Nasce a Roma l’11 novembre del 1912, lì cresce e nel quartiere ebraico tutti la considerano matta. Dopo la promulgazione delle leggi razziali del ‘38 ha una colluttazione con dei fascisti intenti a schiaffeggiare un ebreo. Elena non ci sta, si ribella, è pronta a combattere anche da sola, non perché sia matta ma perché non ha paura. L’atto non resta di certo impunito ed Elena viene arrestata, e assegnata al confino di polizia in Sicilia dal 1940 al 1942. Dopo essere stata liberata dagli alleati, si trova a Roma nei giorni dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Anche lì non resta ferma, anzi, organizza rivolte e assalti alle armerie per combattere i tedeschi.

    Con l’arrivo del “sabato nero” degli ebrei romani, il tragico 16 ottobre 1943, le cose si complicano. Elena riesce a fuggire alla retata dell’ex ghetto, ma di fronte all’ennesimo sopruso lei non ci sta, così viene deportata ad Auschwitz. “Elenuccia” era povera, senza cultura, istintiva, ultima tra gli ultimi. Ma era anche una donna temeraria, che non si lasciava intimidire in quei tempi oscuri in cui la via d’uscita spesso sembrava rimanere in silenzio. Allora forse non era lei la “matta”.

    Le vicende di Elena, che si dipanano in un arco temporale che va dal 1938 al 1943, rappresentano uno spaccato fondamentale di cronaca degli ebrei romani in quegli anni duri. A tracciare egregiamente il suo profilo è lo storico Gaetano Petraglia, funzionario archivista presso l’Archivio Centrale dello Stato, nel suo nuovo libro “La matta di piazza Giudia. Storia e memoria dell’ebrea romana Elena Di Porto”, edito da Giuntina. 

    Shalom ha intervistato l’autore in occasione dell’uscita del libro e dell’anniversario dei 110 anni di Elena Di Porto. 

    Come mai ha deciso di riportare alla luce proprio la storia di Elena Di Porto?

    La mia ricerca è nata per caso. Una decina di anni fa durante un lavoro in un archivio della mia terra, la Basilicata, notai alcuni fascicoli intestati ad internati di religione ebraica. Erano, questi, in massima parte stranieri: polacchi, rumeni, ungheresi, austriaci che, minacciati dall’avanzata nazista, cercavano una via di scampo attraverso i porti italiani verso la Palestina, gli Stati Uniti o l’America del Sud. Su uno solo di quei fascicoli era però impresso un nome italiano, quello di un’ebrea romana: Elena Di Porto. La cosa mi incuriosì molto e, terminato quel lavoro e trasferito intanto a Roma, decisi di approfondire. Da lì ho studiato, indagato, raccolto documenti e testimonianze, in definitiva ho conosciuto Elena e la sua sorprendente storia racchiusa in questo libro.

     

    Cosa significa oggi raccontare una storia di questo genere?

    Significa innanzitutto rendere il giusto riconoscimento ad una disgraziata donna del Ghetto di Roma, maltrattata, emarginata, perseguitata, inviata per tre anni al confino in Basilicata e Marche, ma che non smise mai di opporsi ad ingiustizie e soprusi compiuti contro sé e contro gli altri, e che a partire dagli anni Trenta si adoperò, a parole e soprattutto con i fatti, con generosità disinteressata, a difesa della sua comunità vessata dai fascisti e poi dai nazisti. Elena è una figura centrale per la storia degli ebrei di Roma e un personaggio raro: una eroina del popolo, umile tra gli umili, che ricorda a tutti il valore collettivo e universale della libertà e del rifiuto di ogni forma di oppressione e di totalitarismo.

    Quale percorso ha seguito per la stesura di un libro che narra la storia di una donna davvero rivoluzionaria per i suoi tempi?

    Il percorso di ricerca è stato alquanto complicato, in primo luogo a causa della difficoltà di ricostruire con una certa completezza il profilo biografico complesso e ricco di sfumature di questa donna tanto lontana dagli stereotipi dell’epoca. La stesura di questo libro, che è il frutto finale della ricerca, ha richiesto molto tempo su questo aspetto. Una vicenda che è riaffiorata dai documenti d’archivio, peraltro numerosi, e dalle testimonianze orali, dirette e indirette, e ciò ha necessariamente comportato una continua e articolata attività di controllo e raffronto delle fonti. Questo libro, non secondariamente, è anche una riflessione sul perché questa figura conosciuta da tanti nella cerchia degli ebrei romani sia rimasta come sopita e avvolta nelle nebbie della memoria individuale e collettiva, e sulla necessità di farla riemergere offrendola ad un pubblico più ampio.

     

    Secondo lei, quale può essere l’aspetto inedito di questo libro rispetto alle storie raccontate fino ad oggi?

    Per quanto riguarda l’aspetto inedito direi che è stato quello di aver utilizzato documenti d’archivio incrociati con testimonianze attentamente controllate, ed essere riusciti abbastanza compiutamente a ricostruire la compresa personalità e il ruolo ha avuto da Elena Di Porto nel ghetto di Roma durante quel periodo. In tutto liberando anche un racconto di questa persona dalle ombre della memoria e da qualche tentativo, che per fortuna non è andato in porto, di strumentalizzazione ideologica e politica. Elena è un personaggio straordinario che attraverso questa ricerca e questo libro ho tentato di offrire ad un pubblico più vasto su base scientifica e storicamente fondata. Questo approccio ha consentito di approdare ad alcuni risultati inediti. Innanzitutto è inedito il volto di Elena, così come appare da una fotografia del periodo del confino ritrovata a Gallicchio (Potenza). Poi a formulare con quasi assoluta certezza che Elena fu presente al portico d’Ottavia, il giorno della razzia: fu lei che tentò di avvisare quanti poteva, terminando la sua vita con un gesto di estrema generosità.


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