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    Quando il 2 giugno 1946 gli italiani, e dopo la discriminazione finalmente anche quelli di religione ebraica, furono chiamati a votare per scegliere tra monarchia e repubblica e anche per l’assemblea costituente, erano passati meno di otto anni dall’approvazione delle leggi razziste del 1938. Come si legge nel saggio di Claudio Procaccia, al momento dell’emanazione della normativa razziale, la comunità ebraica di Roma era composta da circa 12.000 individui, corrispondenti ad oltre 4.000 contribuenti. Nel secondo dopoguerra gli ebrei a Roma erano 11.300, tra i quali vi erano non pochi profughi provenienti dall’Est europeoPiù di duemila avevano trovato la morte nei campi di sterminio, la metà nella razzia del Ghetto il 16 ottobre del ’43.

    Fino ad allora i Savoia erano stati accolti come coloro che avevano liberato gli ebrei dal Papa Re e dalla schiavitù del Ghetto. 76 anni prima era iniziata l’emancipazione e la conseguente integrazione nella vita della comunità italiana. Un idillio culminato nell’elezione di Ernesto Nathan alla guida della Capitale dal 1907 al 1913, ma anche con la nomina di Sidney Sonnino, di padre ebreo, presidente del consiglio 1906-1910, ministro degli esteri 1914-1919. Erano gli anni in cui si costruiva la grande sinagoga di Roma, nel 1904, e quella del nuovo quartiere Esquilino, nel 1914, in via Balbo.

    Poi tutto cambiò con l’alleanza di Hitler e con la proclamazione a Montecitorio il 18 settembre del ’38 delle leggi della razza. In realtà, la situazione italiana era mutata molto prima da quando il re, Vittorio Emanuele III, non aveva proclamato lo stato d’assedio il 28 ottobre 1922 durante la marcia su Roma e aveva dato l’incarico di formare il governo a Benito Mussolini aprendo di fatto la strada alla dittatura. Un regime che prometteva di ristabilire l’ordine dopo i due anni in cui il paese era stato in mano ai socialisti, ma che in realtà era violento e che pian piano strozzava i cittadini delle proprie libertà. Gli ebrei, alcuni dei quali iscritti al partito fascista e fortemente antisionisti (fondatori nel 1934 del giornale La bandiera), si illusero che la stretta non li avrebbe mai riguardati, certi di un avvenire senza timore dopo che i Savoia li avevano liberati. 

    Tra le colpe della monarchia, spicca proprio la firma alle leggi razziste del ’38, malgrado Vittorio Emanuele III fosse contrario ai provvedimenti, reclamò con Mussolini, ma alla fine firmò. Il colpo di grazia alla monarchia, però, fu un altro, la vergognosa fuga del 9 settembre 1943 da Roma a Pescara abbandonando la Capitale e gli ebrei al proprio destino. Sbagli che la monarchia avrebbe pagato quel 2 giugno 1946 quando è bene ricordarlo per la prima volta votarono anche le donne, relegate nel fascismo al semplice ruolo di madri e mogli. Fu un risultato stretto, 12 717 923 cittadini favorevoli alla repubblica e 10 719 284 cittadini favorevoli alla monarchia54,3 per cento contro il 45,7, in una nazione spaccata tra un nord repubblicano e un sud monarchico, ma ci fu. E a presiedere i lavori dell’Assemblea Costituente fu un ebreo, Umberto Terraciniuno dei firmatari della Costituzione il 27 dicembre 1947.

    E simboleggiò l’inizio di una nuova avventura. Ironia della sorte, il primo presidente Enrico De Nicola era monarchico, fu presidente della Camera nel ‘21 artefice del patto di pacificazione tra fascisti e socialisti, eletto nel ’24 nel listone fascista per poi abbandonare la politica in contrasto col regime rimanendo sempresenatore. Gli si rimprovera di non essere venuto a dire no alle leggi razziste, però nel ’29 votò sì ai patti lateranensi. E non mancano presidenti discutibili, come Giovanni Gronchi, 1955-1962, che eletto bacia l’anello a Pio XII, il papa del silenzio. O Sandro Pertini che riceve il leader palestinese Arafat al Quirinale poco prima dell’attentato alla Sinagoga il 9 settembre 1982. Il bello della Repubblica è che dopo 7 anni scade il mandato e soltanto in due casi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, presidenti attenti alla comunità ebraica, vengono rieletti per imperizia delle forze politiche atrovare un’alternativa.

    Ma vogliamo chiudere questa nostra riflessione con due immagini. Quella del re di maggio, Umberto II, dal portello dell’aereo a Ciampino che lo porterà in esilio in Portogallo. Ma soprattutto quella alla quale possiamo assistere ad ogni anno durante la parata militare al Foro Italico il 2 giugno. Il saluto del presidente della Repubblica in carica ai bersaglieri che sfilano suonando la fanfara che ci ricorda la liberazione dal Papa Re il 20 settembre 1870. Ascoltano le note di Flik Flok, il pensiero va al comandante Giacomo Segre, scelto dal generale Cadorna per le sue capacità, ma anche indifferente alla scomunica papale per aver sparato i colpi di cannone che aprivano la Breccia di Porta Pia. A lui, va oggi il nostro pensiero, al nostro presidente Mattarella, all’emozione del cielo bianco, rosso e verde delle frecce tricolori e alla nostra incredibile Repubblica.

    ITALIA

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