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    Il ritiro della Golani
    In maniera ordinata, tranquilla e senza troppa pubblicità, Israele ha ritirato nei giorni scorsi un’intera divisione da Gaza, circa 20mila combattenti. Non si tratta di riservisti. Ne fanno parte alcuni dei migliori reparti di carri armati e del genio e la maggior parte della mitica brigata Golani. È una decisione importante, anche se il senso non ne è chiarissimo. Il portavoce dell’esercito ha parlato della necessità di concedere turni di riposo ai soldati che sono al fronte da quasi tre mesi e di aggiornare il loro addestramento. È stata data anche pubblicità alle immagini di un altro reparto ritirato già qualche giorno fa, mentre si addestrava sotto gli occhi del Capo di Stato Maggiore a un’operazione di terra in Libano, che avrebbe caratteristiche assai diverse da quelle di Gaza, sia per la configurazione aspra e montagnosa del terreno, con valli strette che rendono difficile la manovra dei carri e anche degli elicotteri, sia per la maggiore probabilità di scontri frontali con le milizie di Hezbollah, meglio armate e addestrate di quelle di Hamas. Dunque il ritiro da Gaza potrebbe preludere a un incremento della guerra al nord, motivato sia dalla persistenza di attacchi dei terroristi, sia dalla necessità di eliminare la loro potenza militare e obbligarli a rispettare la delibera 1701 dell’Onu, approvata nel 2006 dopo la fine della seconda guerra del Libano, che li obbliga a non avvicinarsi al confine con Israele a meno di una ventina di chilometri. Ciò è necessario per permettere agli abitanti dell’Alta Galilea di tornare a casa e di riprendere una vita normale.

    Le dichiarazioni di Gallant
    Una seconda e non incompatibile spiegazione sta in una dichiarazione del ministro della Difesa Yoav Gallant, che risale a lunedì. “La fase intensa di manovre nel nord della Striscia di Gaza è terminata, e anche nel sud finirà presto. Circa tre mesi fa abbiamo specificato le fasi di attuazione e chiarito che la fase di manovra intensiva sarebbe durata circa tre mesi. Nel nord della Striscia di Gaza, questa fase si è conclusa”, ha detto il ministro della Difesa, che ha segnalato poi l’imminente fine delle operazioni pesanti di combattimento nella parte meridionale di Gaza. Tuttavia, anzitutto, Hamas continua a sparare i suoi missili contro Israele (cinquanta negli ultimi tre giorni); inoltre, vi sono ancora numerose segnalazioni di combattimenti in varie località della Striscia e anche di zone in cui Hamas agisce ancora come il potere sovrano sul territorio: ciò consente all’organizzazione terroristica di prelevare i soccorsi umanitari che arrivano tramite il valico di Kerem Shalom o di imporre tasse su di esse, riuscendo a porre esose condizioni per la fornitura di medicinali ai rapiti che è accaduta ieri per la prima volta, dopo una complessa mediazione fra Egitto, Qatar e Usa, richiedendo che le siano consegnati una quantità di medicinali pari a 50 volte quelli destinati ai sequestrati. Ieri Hamas si è anche presa il lusso di una dichiarazione in cui rifiuta esplicitamente l’obiettivo politico dei due stati, sostenuto da Europa e Usa, per riaffermare il progetto della distruzione totale di Israele.

    La continuazione della guerra
    Anche le ultime dichiarazioni dell’ufficio di Netanyahu sembrano escludere che il ritiro costituisca l’anticamera del cessate il fuoco, come alcuni vorrebbero: “Gli obiettivi della guerra sono ben noti: primo fra tutti l’eliminazione di Hamas, il rilascio dei nostri ostaggi e la sicurezza che Gaza non rappresenterà mai una minaccia per Israele. Il primo ministro Netanyahu non intende scendere a compromessi su questi obiettivi e insiste affinché siano pienamente raggiunti”, ha affermato l’ufficio del primo ministro. In un discorso, Netanyahu si è spinto a prevedere che la guerra durerà ancora nel 2025. Che cosa spiega allora il ritiro di alcune truppe da Gaza? Da un lato vi è un cambio di tattica, la scelta di agire per missioni veloci e non tenendo soldati impegnati a occupare staticamente il territorio. Dall’altro bisogna leggervi una cessione alle pressioni americane, che per ideologia ma anche per ragioni elettorali interne vogliono assolutamente poter dire che hanno ottenuto una de-escalation dell’azione militare di Israele. Certamente questa pressione rende più complicata l’azione bellica. Ma è difficile dal di fuori giudicare l’equilibrio stabilito dal gabinetto di guerra israeliano fra la volontà di un alleato essenziale come gli Usa e le necessita della guerra.

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