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    Un giovane prete dal cuore d’oro e un portiere d’albergo distinto e sorridente. Il coraggio di dire “no” alla cieca violenza, il desiderio di civiltà nonostante la brutalità della guerra, il senso di umanità oltre ogni considerazione politica, sociale o religiosa, questi gli elementi che faranno annotare per sempre nelle pagine del grande libro della Storia due figure così apparentemente tanto distanti. Siamo nell’Umbria di confine che guarda a Toscana ed Emilia Romagna, a Città di Castello, in una terra di gente caparbia e generosa che non si fa certo mettere i piedi sopra da nessuno, durante il terribile giugno 1944 delle razzie tedesche e della caccia prezzolata all’ebreo. Nel centro storico semideserto, don Beniamino Schivo, allora 34enne, allestisce un ospedale d’emergenza nel Seminario vescovile dopo che il nosocomio cittadino era stato depredato dai tedeschi. Lo aiutano poche suore che lavorano come infermiere, ma due di esse non sono affatto religiose: Johanna e Ursula Korn, madre e figlia, sono ebree tedesche che il sacerdote aiuta fin dal 1941 e che ha in precedenza nascosto nella villa rurale delle suore salesiane. Uno dei pazienti dell’ospedale da campo è nientemeno che Paul Korn, il capofamiglia, che finge una malattia altamente contagiosa per tenere lontani fascisti e tedeschi. Sono ore convulse, scattano controlli a più riprese ma il trucco orchestrato dal sacerdote si rivela vincente. Quando arrivano gli inglesi, alcune settimane più tardi, la famiglia è salva e racconterà le proprie peripezie, sottolineando l’ardimento civile del giovane prete. Monsignor Schivo, facendo onore al proprio cognome, minimizzerà sempre il proprio operato considerandolo normale e vivrà ben 102 anni, fino al 2012. Nel 1986 sarà ‘Giusto tra le Nazioni’ e nel 2008 riceverà per il suo gesto la Medaglia d’Oro al Valor Civile dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

     

    Ma nello stesso luogo, addirittura negli stessi spazi fisici e soltanto una manciata di mesi prima, nel gelido inverno tra il ’43 e il ’44, era andato in scena l’altro clamoroso episodio della perenne lotta tra civiltà e violenza insensata. Un treno in viaggio verso Livorno è costretto a fermarsi alla stazione di Città di Castello per un guasto. Sarà una cosa lunga, la rottura meccanica è seria. Fa freddo, tre persone, padre, madre e un figlioletto in tenera età, scendono dal convoglio e cercano un posto per trascorrere la notte. Sono ebrei, sanno di essere inseguiti dalla polizia politica e dai nazisti. Qualcuno indica loro l’albergo Tiferno, in pieno centro. E’ ormai buio, li accoglie il portiere Sante Bernardini, per tutti Santino. La struttura è piena ma al pianterreno c’è una cameretta di servizio lontana da sguardi indiscreti. Sono giorni nei quali non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni e Santino il portiere ha già compreso tutto. In silenzio ha fatto la propria scelta, nasconde quella famiglia. Trascorrono poche ore e nell’albergo, in piena notte, fanno irruzione i militari tedeschi. Con loro alcuni poliziotti italiani. Hanno avuto una soffiata, cercano un ‘pezzo’ grosso ebreo, hanno già controllato altri hotel e ora setacciano il Tiferno. Santino li porta nelle camere ma evita accuratamente la stanzetta di servizio. “E’ solo un ripostiglio di vecchi materassi e mobili rotti”, racconta. Una bugia che può costargli la vita, ma non esita. Tedeschi e fascisti se ne vanno, all’indomani i tre ospiti possono ripartire verso Livorno. Santino così ha salvato la vita a Elio Toaff, poi storico rabbino capo di Roma e che alcuni anni dopo diventerà cittadino onorario di Città di Castello e ricorderà per sempre lo straordinario coraggio del portiere d’albergo, a sua moglie e al loro figlio Ariel.

    Cultura

    Storie di coraggio: il prete che nascose una famiglia ebraica e il portiere d’albergo che salvò il giovane Elio Toaff

    Di Yoram Ortona

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