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    Immaginiamo la visita di stato di un presidente italiano (o francese, o tedesco, non importa) in una capitale araba: viene ricevuto all’aeroporto da ministri e funzionari, lo trasportano alla residenza del capo dello stato, all’ingresso una banda militare suona l’inno del suo paese, la sua bandiera è esposta accanto a quella del posto. Tutto normale, accaduto mille volte. Ma poniamo ora che il presidente sia quello di Israele. Niente del genere è mai successo, neanche coi paesi con cui vi è un trattato di pace (Egitto, Giordania). Qualche incontro sì, ma clandestino, senza formalità, coi ministri incaricati di risolvere problemi concreti, in mezzo all’ostilità dell’opinione pubblica.

     

    Così fino a ieri. Perché finalmente il momento è arrivato: Itshak Herzog, presidente dello stato di Israele, è arrivato all’aeroporto di Dubai, è stato accolto dall’erede al trono, portato alla reggia dell’emiro, è sfilato davanti al plotone d’onore, ha visto il Magen David azzurro della bandiera israeliana esposto accanto al vessillo degli Emirati Arabi Uniti, ha ascoltato la Hatikva, l’inno israeliano, che parla in versi commoventi della speranza e del futuro. Infine ha tenuto un lungo incontro di lavoro con i governanti del paese. Tutto normale, tutto eccezionale proprio perché normale: la realizzazione di un sogno coltivato da Theodor Hertzl, che 17 maggio 1901, incontrò il sultano turco Abdulhamid II, ma non certo da capo di stato, o di Chaim Weizmann, che incontrò più volte prima del Trattato di Versailles l’Emiro Faysal (figlio dello Sceriffo della Mecca e Re dell’Hegiaz cioè quella che oggi chiamiamo Arabia Saudita), nella speranza di arrivare a un accomodamento fra ebrei e arabi.

     

    Questo incontro è importante perché non è politico, ma statale. Con gli Emirati, ma anche con il Bahrein e con il Marocco sono già avvenuti molte riunioni a livello di ministri, si sono firmati accordi, prese iniziative comuni, addirittura fatte manovre militari assieme. Ma questo è il coronamento simbolico. E non si tratta di un fatto isolato. A parte Marocco, Bahrein e Sudan, che hanno già firmato, le trattative con l’Arabia sono in uno stato avanzato, si parla di possibili accordi anche con altri stati islamici, dall’Indonesia al Pakistan, fino al Qatar. Perfino il rapporto con la Turchia, guidata da un islamista nostalgico dell’impero ottomano come Recep Tayyip Erdogan stanno, a quanto pare, migliorando. Lo stato delle relazioni fra Israele e il mondo islamico è oggi del tutto differente di quel che era 50, 20, anche solo 5 anni fa. Il merito va a Donald Trump, che ha lasciato l’eredità degli accordi di Abramo; a Bibi Netanyahu, che ha avuto la lucidità di barattare una dichiarazione di sovranità su parte di Giudea e Samaria che non sarebbe stata accettata da nessuno con il processo di normalizzazione patrocinato da Trump. E paradossalmente dell’Iran, che insistendo su una politica imperialista e guerrafondaia contro Israele ma anche contro tutti i suoi vicini arabi, ha spinto i suoi nemici a unirsi per difendersi dalla sua aggressione.

     

    Purtroppo a rovinare la festa c’è l’indifferenza totale dell’Unione Europea, che è interessata alla pace solo quando significa indebolimento di Israele e la politica di Joe Biden, che cerca un accordo al ribasso con l’Iran, e però fa fatica a costruire un quadro minimamente decoroso per la resa che vorrebbe in Medio Oriente, come ha già fatto con l’Afghanistan. Ma gli accordi di Abramo sono difficili da annullare anche per chi non li vorrebbe proprio vedere, perché sono sostenuti da affinità economiche, complementarietà tecnologiche, da elementi culturali condivisi nella lunga tradizione sefardita che è una parte fondamentale dell’identità di Israele. Nel rapporto fra lo stato ebraico e gli Emirati si intravvede davvero uno sviluppo storico conveniente per tutti i popoli della regione, che mette in soffitta i vecchi rancori ancora coltivati dai palestinisti e da chi li appoggia, per proporre  al posto del revanscismo uno sviluppo comune del Medio Oriente. E la cerimonia che si è svolta al palazzo di Dubai è davvero più che una promessa di un futuro migliore: il simbolo di una collaborazione che cambierà la regione.

    ISRAELE

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