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    Sono state settimane convulse quelle precedenti alla partenza, soprattutto per noi genitori chiamati a condividere scelte difficili ed accettare protocolli severissimi, ma sono straconvinto che ne sia valsa la pena. 

    L’esperienza che hanno vissuto i ragazzi è stata una delle iniziative di maggiore rilievo dal mio punto di vista nel panorama dell’Italia ebraica dall’inizio della pandemia, una bestia che ha inciso e continua a incidere sfavorevolmente sulle relazioni in generale, ma che, come purtroppo sperimentiamo, ha limitato profondamente i rapporti essenziali fra i giovani ebrei. 

    180 ragazzi decine dei quali dalle piccole comunità, adolescenti che da due anni e oltre non hanno avuto modo di trascorrere vita ebraica intensa come sa offrire solo un campeggio ebraico hanno partecipato al machanè della Hashomer Hatzair.

    Oltre che ai responsabili, da genitore voglio dire grazie in primis proprio a loro, madrichim e chanichim che non hanno esitato un momento ad accettare la severa disciplina che si imponeva per non rinunciare a questi otto giorni insieme.  Una macchina rigorosa fatta di tamponi rapidi e molecolari (che ovviamente hanno determinato un onere per le famiglie e per il movimento non indifferente) pensata da esperti e volenterosi assistenti. Come dimenticare l’infermiera Ghila Limentani che sotto la pioggia alla partenza ha eseguito le decine di tamponi per consentire ai madrichim di salire sul pulman in sicurezza e arrivare due giorni prima per preparare l’arrivo dei campeggisti la domenica. Tanta gratitudine anche alla Vaadat Horim, gruppo dei genitori, che ha seguito ogni fase del delicatissimo processo teso a creare la cosiddetta “bolla” che ha garantito la salvaguardia di tutti.

    Tutto questo ha un significato assoluto, dimostra come con buona volontà, in piena ottemperanza alla legge, si possano compiere imprese considerate necessarie e non rinviabili, per il futuro ebraico. Ma assume importanza ancora maggiore, come dicevo, per i giovani delle piccole comunità che non hanno il senif o il ken nelle proprie città. Un investimento, che come è noto non era del tutto scevro di rischi, sebbene adeguatamente ponderati, messo in campo per creare e condividere quella atmosfera di cui si sentiva tanto la mancanza. 

    C’è da augurarsi che dirigenti, maestri e famiglie recepiscano questo segno e, Dio piacendo, in una situazione pandemica migliorata, si moltiplichino i ragazzi presenti ai movimenti da tutta Italia.

     

    ITALIA

    Chazzak we-ematz

    Di Doretta Davanzo Poli

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