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    Quest’anno ricorrono alcuni anniversari di estrema importanza e, tra questi, vi è l’insediamento il (2 dicembre del 1951) di Elio Toaff con l’incarico di Rabbino capo della Comunità Israelitica di Roma (secondo la denominazione coeva). 

    Il suo predecessore, rav David Prato (1882-1951), aveva raccolto una comunità colpita dalle leggi antiebraiche, dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla conversione al cattolicesimo del proprio rabbino capo. Altre collettività, di fronte a questa serie di eventi negativi, probabilmente avrebbero perso il senso dell’orientamento e si sarebbero in buona misura disperse. Non fu così per la compagine ebraica di Roma che dimostrò un’identità fortissima, un legame con le proprie tradizioni straordinario. A rafforzare questa capacità fu l’operato di rav Prato che seppe relazionarsi con le famiglie in difficoltà materiali e psicologiche dopo i lutti subiti, e agire proficuamente anche grazie all’opera importantissima dell’American Jewish Joint Distribution Committee, che consentì il recupero e la coesione di una collettività depressa. Seppe, inoltre, avviare una serie d’importanti relazioni con le istituzioni del nascente Stato di Israele.

    Tuttavia, Rav Toaff ereditò una comunità ancora fortemente provata dagli accadimenti recenti e con un tasso di povertà enorme. Pertanto, nei decenni successivi il suo insediamento continuò l’opera di ricostruzione iniziata con rav Prato e, tra l’altro, riorganizzò la scuola ebraica, inaugurò il Museo ebraico (1960) il Centro di cultura (1973) e l’Archivio Storico (1997).

    La sua attività fu su largo spettro, coadiuvata dalla classe dirigente dell’epoca, e riguardò prevalentemente il tema delle condizioni materiali di moltissimi ebrei, il tentativo di ritorno alla normalità delle famiglie che subirono le deportazioni. A questo va aggiunto il recupero di molte tradizioni ebraiche che, sin dall’epoca dell’emancipazione, erano andate progressivamente perdute e avevano contribuito alla crescita dell’assimilazione. Un fenomeno che riguardava tutte le comunità ebraiche italiane ed era diffuso in buona parte d’Europa. I risultati furono importanti e le nuove generazioni seppero riportare in famiglia usi che a molti sembrarono delle innovazioni non sempre comprensibili. All’epoca si registrò un apparente paradosso: le nuove generazioni erano più osservanti dei precetti ebraici di quelle precedenti. E lo erano in piena libertà, senza le costrizioni dei ghetti, senza che lo Stato li considerasse di “razza ebraica” e all’interno di un contesto economico, sociale e culturale in crescita ma anche in profondo e rapido mutamento dalla fine degli anni Cinquanta. La società dell’epoca stava vivendo un celere processo di laicizzazione che non influenzò quella parte di giovani anche grazie all’azione dei fiorenti movimenti giovanili ebraici, i quali incrementarono la conoscenza della storia e della cultura ebraica e cercarono di incentivare le alyoth (il ritorno nella Terra Promessa). Infine, va sottolineato che nel periodo dell’emancipazione sino alle leggi antiebraiche (1870-1938) furono soprattutto i ceti più colti e abbienti ad assimilarsi, mentre dal secondo dopoguerra il fenomeno del recupero delle radici fu trasversale.

    Tuttavia, a fronte di tali progressi non possiamo non riscontrare come una parte degli iscritti non era molto coinvolta nella vita comunitaria, fenomeno che si evidenziò sin dai decenni prebellici. Inoltre, dal 1967 fu severo il problema dell’accoglienza dei profughi ebrei provenienti dalla Libia. A questo proposito va ricordato che, comunque, fu pronto l’inserimento di questi ultimi sia nella comunità, sia nella società romana nel suo insieme e che questo dramma si rivelò una straordinaria occasione per un ulteriore rafforzamento identitario della compagine ebraica della capitale. 

    L’espulsione degli ebrei dalla Libia va collegata inequivocabilmente alla “Guerra dei sei giorni” (5-10 giugno 1967) e all’acuirsi della crisi mediorientale. Il nuovo complesso scenario geopolitico aveva determinato, tra l’altro, il rapporto controverso e ambiguo dello Stato italiano nei confronti del mondo arabo. A tale relazione molti osservatori ricollegano l’attentando di terroristi palestinesi al Tempio Maggiorare di Roma del 9 ottobre del 1982. Un tragico tributo di sangue con decine di persone ferite e un bambino ucciso di soli due anni, Stefano Gaj Taché. 

    Anche in questo caso la comunità ebraica di Roma, con in testa rav Toaff, seppe reagire con dignità al terribile evento ma rimane una ferita mai rimarginata anche per le connivenze mai del tutto appurate.

    Tuttavia, gli anni Ottanta del Novecento furono caratterizzati da un altro evento di profilo decisamente diverso: Giovanni Paolo II accolto in sinagoga dal Rabbino capo. Un evento storico, di portata mondiale, che ha sollevato qualche critica per le conseguenze mediatiche di lungo periodo ma che ebbe importati riflessi sulle sempre difficili relazioni tra modo ebraico e Chiesa di Roma; soprattutto modificò in senso positivo l’immagine degli ebrei agli occhi di molti fedeli cristiani e non solo.

    Altro problema che affrontò la comunità sotto la direzione spirituale di Rav Toaff, coadiuvato da una classe rabbinica in piena riconfigurazione grazie all’azione del Collegio Rabbinico Italiano, fu, dagli anni Novanta, quello del progressivo decremento delle nascite e dell’invecchiamento della popolazione ebraica dopo i boom demografici dei decenni precedenti, nonché la riduzione del contingente anche a seguito dell’assimilazione che, nonostante, i progressi evidenziati in termini di tenuta identitaria, continuava a caratterizzare una parte delle famiglie ebraiche. 

    Alcune delle sfide affrontate dalla comunità nell’Era Toaff sono ancora le stesse, aggravate da una crisi economica e di riconfigurazione del sistema di produzione di distribuzione delle merci e dei servizi globale che ha colpito duramente molti operatori economici. La pandemia ha peggiorato ulteriormente la già precaria situazione. Inoltre, rimane da affrontare il problema del maggiore coinvolgimento nella vita comunitaria di molti membri della collettività ebraica anche ai fini della tenuta identitaria. 

    La strada è stata tracciata e oggi tocca a tutti gli iscritti alla Comunità Ebraica di Roma continuare a individuare le modalità per essere protagonisti una nuova stagione di rinascita materiale e di crescita culturale.

    Si ringrazia Lilli Spizzichino per la ricerca dell’apparato iconografico e per il supporto alla ricerca. 

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